Negli ultimi giorni in tant* hanno discusso di body shaming e di come questo sia stato perpetrato da Striscia la Notizia nei confronti della giornalista Giovanna Botteri. Non siamo interessate a continuare un dibattito senza fine su chi tra Giovanna Botteri e Michelle Hunziker sia la vittima e chi sia la persecutrice perchè, come sempre, il problema è strutturale. In un sistema in cui le donne sono esposte ad un grado di scrutinio estremo e sempre maggiore rispetto all’uomo cis bianco ed etero, siamo tutte vittime da un lato, e, dall’altro, abbiamo anche la potenzialità di diventare persecutrici nel momento in cui internalizziamo lo sguardo maschile e lo riproponiamo alle nostre compagne (per non parlare poi delle molteplici intersezioni di privilegio che proteggono, ad esempio, le donne bianche in qualche modo da un grado diverso e maggiore di scrutinio, controllo ed oggettivazione che subiscono le donne nere).
Vogliamo parlarne con un’opera di Barbara Kruger, artista statunitense inseribile nell’ambiente delle artiste femministe post-moderne (altri esempi sono nomi come Cindy Sherman o Jenny Holzer). La sua carriera parte dall’ambiente pubblicitario e più in generale mediatico, lavorando come designer per una importante istituzione editoriale, Condé Nast. Questo ovviamente influenza la sua produzione artistica, riconoscibile per le immagini in bianco e nero sovrastate da scritte bianche su sfondo rosso: le immagini scelte dall’artista partono spesso da fotografie di riviste o giornali, poi manipolate e unite a messaggi che ricordano slogan pubblicitari. “Your Body is a Battleground”, opera del 1989, è stata inizialmente realizzata dall’artista a sostegno delle manifestazioni a favore della legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza negli Stati Uniti.
“Your Body is a Battleground” (letteralmente “il tuo corpo è un campo di battaglia”) è un’affermazione che presenta diversi livelli di interpretazione, e noi ne abbiamo individuati uno politico, uno sociale, uno ontologico. Politicamente, i corpi femminili e femminizzati sono e sono stati strumento di lotta e rivendicazione femminista, soprattutto nell’ottica per cui, da un lato, il binomio corpo e mente è assolutamente di genere (le donne sono corpo e gli uomini sono mente) e dunque si crea una dinamica di potere in cui il controllo del corpo femminizzato dipende dall’establishment maschile; dall’altro proprio questo binomio fa sì che le lotte femministe si siano spesso articolate attorno al bisogno di riappropriazione e rivalutazione del corpo. A livello sociale, i corpi sono spesso luogo di violenza perpetrata da parte di altre persone in termini fisici, verbali o psicologici: il caso a cui ci rifacciamo in questo articolo è un esempio di come il sistema patriarcale usi corpi femminili o femminizzati come bersaglio, ricoprendo facilmente una metafora bellica. Vorremmo però porre l’attenzione sulla valenza ontologica della frase, ricordando, a noi stess* prima che agl* altr*, l’essenza stessa del corpo come strumento funzionale, un luogo in cui accadono in ogni istante processi e scambi simili all’immagine di un campo di battaglia ed escludendo però dall’equazione l’idea di vint* e vincit*. Tutti questi movimenti si traducono nella possibilità di sfruttare il proprio corpo in modo autonomo e strumentale.
Rispetto alla vicenda riguardante Giovanna Botteri e Michelle Hunziker, rimane evidente che navigare tra body shaming e violenza online per le donne italiane sia un campo minato, ma è utile allontanarsi dalla retorica predominante secondo cui se la violenza avviene da una donna nei confronti di un’altra donna assume in qualche modo un livello di gravità peggiore. Infatti, in questo modo non solo si sta implicitamente quasi giustificando lo stesso comportamento da parte di un uomo, ma si sta anche evitando di affrontare il problema più grande del corpo e delle sue rappresentazioni all’interno di una struttura patriarcale.