È un tempo sospeso quello della quarantena, come di goccia appesa al davanzale mentre fuori piove. Un “fuori” che ci viene negato, sottratto, precluso per il bene nostro e altrui ma pur sempre coercitivamente. Ciascun* vive sé, la casa ed eventuali coinquilin* a modo suo, rattoppando i soliti automatismi o sfoderando risorse inaspettate, magari inciampa tra le pieghe del tappeto sotto il quale ha nascosto un po’ di polvere negli ultimi giorni mesi anni e dopo una prima stizzita sorpresa, una scrollata apparentemente disinteressata di spalle e di pulviscolo, si incanta di fronte a quel nuovo vecchio mondo interno che, diciamocelo, si ha troppo spesso la presunzione di conoscere. Dopo essermi messa in disordine e in gioco è nato un racconto: ve lo lascio qui, appeso al davanzale per far asciugare l’inchiostro al sole.
C’era una volta, in un tempo non troppo lontano in una città vicina, una giovane con gli occhi all’ingiù e le scarpe da ginnastica sempre ai piedi. Niente castelli o chiome fluenti al profumo di albicocca, nemmeno le scarpette di cristallo… È la storia di una ragazza qualunque, della tua compagna di banco a scuola, della passeggera saltata sul treno all’ultimo secondo, della passante che ti ha sorriso prima di scomparire dietro l’angolo. C’erano il liceo, i pomeriggi accartocciati sulle pagine evidenziate, gli amici, l’esaltazione attonita e vorace dell’adolescenza con le sue scoperte, gli allenamenti, la famiglia con le sue contraddizioni. C’era anche una passione, verde e solitaria, di sentieri poco battuti e silenzi rinnovati, di scorci segreti per segreti pensieri: una dimensione sospesa come a farsi beffe della gravità, una virgola per prendere fiato o una parentesi per approfondire un concetto. Era una ragazza fortunata, ne era consapevole e grata, anzi si sentiva persino in colpa per la troppa grazia. Meritava ciò che aveva? Onorava adeguatamente quell’immenso tesoro? Soprattutto, era all’altezza delle aspettative che il privilegio comportava? Le sue e quelle degli altri, vere o immaginate che fossero, crogiolo di lodi che colorano le guance e pozzo di fango che lorda l’anima. Se lo chiedeva di continuo camminando, ogni passo un punto di domanda fino a mozzare il fiato come una salita scalata di corsa.
Imprigionata nella logica della perfezione, s’era convinta che l’unico valore risiedesse nel riuscire ad aderire all’ideale: mente svelta, spalle larghe, sorriso irresistibile. Un’Atena impeccabile, ma una dea, non certo una ragazza intrinsecamente imperfetta e per questo meravigliosamente umana. Vallo a spiegare a chi s’affaccia al mondo con la sete di tutta una vita davanti che la fragilità è da coltivare e non da temere, proprio come la delicata trasparenza che del cristallo è al contempo rischio e pregio. Che ci vuole un po’ di indulgenza verso sé stessi, che bisogna imparare tanto a migliorarsi quanto ad accettarsi e perdonarsi. Nella sua ossessione non c’era spazio per l’errore, per il ripensamento, per l’incoerenza, per una qualsiasi forma di debolezza. C’era solo il giudizio ringhiante e rabbioso che non ammetteva repliche e il brontolio di uno stomaco affamato. La necessità di controllare e controllarsi aveva divorato lentamente ogni cosa, dai voti alla pallacanestro alle relazioni, quando poi non aveva più trovato di che nutrirsi si era accanita sul corpo. Riuscire a controllare la fame fa sentire incredibilmente potenti, è esaltante imporsi di non soddisfare un bisogno così primario che persino la giornata e molte occasioni sociali si organizzano intorno alla tavola. Aveva diminuito le porzioni, poi le pietanze ammesse dalla “dieta”, poi il numero dei pasti, mentre le camminate s’allungavano per bruciare ancora qualche caloria, per perdere ancora un chilo. Una caduta libera mascherata da volo calibrato, tale era la cecità, lo sguardo rivolto all’ideale illusorio che non era di bellezza né di salute, ma solo di auto-disciplina. Una caduta libera destinata allo schianto di un mucchio di ossa secche nel buio.
Se fosse una storia tanto triste non ve l’avrei raccontata, che di orrori al mondo ce n’è a sufficienza senza che i menestrelli rincarino la dose. È la storia di una ragazza qualunque ma finisce bene come una fiaba, anzi non finisce affatto. L’autodistruzione assorbe tutte le energie di cui uno spirito ha bisogno per prendersi cura di sé, “basta” riappropriarsene: l’amore incondizionato delle persone care, una terapia psichiatrica e psicologica, il tempo e la pazienza (soprattutto verso sé) hanno faticosamente e dolcemente sciolto i nodi della malattia del controllo ad ogni costo.
È la storia di una persona qualunque, è la mia, la tua, la storia di chi a suo modo prova a far fronte alla paura dell’ignoto, all’incertezza, alla delusione, al timore del giudizio ed al peso delle aspettative. Di chi cerca di costruirsi dei solidi principi ed un’identità, inciampando, rotolando, strisciando, gattonando, rialzandosi infine, prendendosi anche una pausa ché l’introspezione stanca e a volte serve ricordarsi che la leggerezza è una dote preziosissima. Di chi decide di essere anziché scomparire, di chi decide di essere, di chi decide, di chi…
[Testo di Virginia Hurle, illustrazioni di Silvia Bocchero]
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