Dal salotto di casa mia che ormai si è trasformato in uno spazio multiuso perenne dove dormire, mangiare, ascoltare le notizie con ansia, fumare una sigaretta dopo l’altra e piangere soprattutto – di sollievo, di rabbia, di paura -, assisto all’inevitabile rialzo dei contagi in Italia e penso alla contaminazione. In questo momento storico la nostra percezione di quel fenomeno multiforme chiamato contaminazione è inevitabilmente viziata dalla tragedia delle morti e delle disuguaglianze sociali, delle RSA, delle persone che scivolano tra le maglie del sistema, abbandonate e rassegnate al contagio, di chi si pensa immune, di chi si pensa immanente, intoccabile.
Si può fare, in questo momento, un elogio alla contaminazione? O meglio, si può parlare di contaminazione positiva? O forse è insensato attribuire a priori concetti morali a ciò che è di fatto soltanto un’alterazione, un cambiamento. Allontanandoci, almeno con la mente, dalla preoccupazione degli effetti reali e materiali dell’espandersi dell’emergenza COVID, mi sono chiesta e ci siamo chiest* cosa sia la contaminazione e come possiamo complicare e forse persino ribaltare questo concetto.
Molto prima della pandemia del COVID-19 ben altre tipologie pandemiche erano già in atto: la supremazia bianca, l’omotransbifobia, l’abilismo, l’ecocidio ed il sessismo per nominarne alcune, il cui contagio è per secoli dilagato incontrastato e ci ha dilaniato con costanza senza mai essere definito “emergenza”. Per secoli alcuni corpi sono stati considerati più “contagiosi”, più porosi di altri: le persone che mestruano sono storicamente state considerate sporche, in balia dei propri corpi, un pericolo contaminatore per chi stesse loro vicino durante quella perdita di liquidi incontrollabile; allo stesso modo le persone queer e trans, le persone nere e razzializzate sono state e sono tuttora vittime di una violenza specifica che affonda le sue radici nella paura atavica della differenza. La sola prossimità, spesso, verso chi è visibilmente diverso da noi, ci provoca disagio: è la minaccia dell’invasione, del contagio del diverso che attacca e inquina la nostra integra purezza. C’è un passaggio incredibilmente suggestivo di Audre Lorde nel suo libro Sorella Outsider del 19841 in cui la poetessa parla proprio di odio razziale, di paura del contagio e del suo corpo di bambina, oggetto della paura.
The AA subway train to Harlem. I clutch my mother’s sleeve, her arms full
of shopping bags, christmas-heavy. The wet smell of winter clothes, the
train’s lurching. My mother spots an almost seat, pushes my little snowsuited
body down. On one side of me a man reading a paper. On the other, a
woman in a fur hat staring at me. Her mouth twitches as she stares and
then her gaze drops down, pulling mine with it. Her leather-gloved hand
plucks at the line where my new blue snowpants and her sleek fur coat
meet. She jerks her coat close to her. I look. I do not see whatever terrible
thing she is seeing on the seat between us – probably a roach. But she has
communicated her horror to me. It must be something very bad from the
way she’s looking, so I pull my snowsuit closer to me away from it, too.
When I look up the woman is still staring at me, her nose holes and eyes
huge. And suddenly I realise there is nothing crawling up the seat between
us; it is me she doesn’t want her coat to touch. The fur brushes my face as
she stands with a shudder and holds on to a strap in the speeding train.
Born and bred a New York City child, I quickly slide over to make room for
my mother to sit down. No word has been spoken. I’m afraid to say anything
to my mother because I don’t know what I have done. I look at the
side of my snow pants secretly. Is there something on them? Something’s
going on here I do not understand, but I will never forget it. Her eyes. The
flared nostrils. The hate.
Terribile e straziante e allo stesso tempo del tutto ordinario in un contesto storico post- segregazione razziale, l’episodio ci fa riflettere non solo su come il corpo nero venga ri-concettualizzato e vissuto come sporco, poroso, contagioso e pericoloso dall’immaginazione bianca (la piccola Lorde, rispondendo allo sguardo della donna accanto a lei, pensa istintivamente ad uno scarafaggio, uno degli insetti più comunemente associati al sudiciume) ma ci fa riflettere anche su come le emozioni (e i pregiudizi) siano altrettanto contagiose. L’odio che Lorde percepisce è vivido e denso tra i loro corpi (è forse davvero personificato in quello scarafaggio che lei si immagina camminare dai suoi vestiti alla pelliccia della signora) e infetta e contagia a tutti gli effetti questa interazione.
E’ ora di ammettere che forse il virus siamo noi, persone bianche. Forse la pandemia di odio razziale, di disgusto e xenofobia – che letteralmente vuol dire paura del diverso, di ciò che ci è alieno, estraneo – è la pandemia che ci deve preoccupare e che ci deve far agire per combattere questa “irrespirabilità” del mondo di cui soffrono le persone marginalizzate e di cui noi, gente bianca, borghese dai salotti multiuso e dai nostri diversi gradi di privilegio siamo la causa. Siamo noi ed il sistema di cui beneficiamo che, agendo esattamente come il COVID, togliamo l’aria, togliamo i sapori e gli odori e rendiamo la vita impossibilmente spossante per chi è diverso o “altro” dal modello normativo.
Eppure c’è un’insensatezza profonda nella paura del contagio. Sì, perchè per avere un tale rigetto della diversità e della contaminazione, per leggere il corpo straniero come portatore malato di cambiamento, sporco e pericoloso, bisogna allo stesso tempo rafforzare le proprie certezze sui confini del nostro corpo, della nostra proprietà, del nostro paese, su ciò che è puro e originale.2 E’ il culto della purezza che ci immobilizza e ci fa odiare, purezza che, non a caso, suona molto come bianchezza. Ma la contaminazione è anche lo stato naturale dell’essere umano. Questa ossessione con la purezza non è soltanto un’idea che ha radici profonde nella supremazia bianca e nel cattolicesimo, ma è anche semplicemente impossibile da realizzare: che vita è una vita vissuta in separazione invece che in comune, una vita sterilizzata, guardata attraverso il plexiglass, una vita di privazione invece che di abbondanza, di fobia ed avversione della diversità invece che di curiosità ed apertura? Contaminazione è vivere nella viscosità e nell’irrisolvibile complicatezza delle cose, dei corpi e delle identità che cambiano costantemente, dei “soggetti nomadi”3; è stare nella relazionalità mutevole che i soggetti umani vivono coi soggetti non umani di piante, batteri, virus, emozioni, ricordi.4 Contaminazione è anche colonialismo. Che cultura è una cultura pura? Questa è una risposta facile: è una cultura non colonizzatrice, non dominante, che non si è appropriata di elementi non-autoctoni, sfruttandoli e storpiandoli per il proprio uso. Contaminazione suona molto anche come appropriazione.
Alla fine, forse, della contaminazione fa paura l’irreversibilità, l’impossibilità di tornare indietro. Ci si potrebbe domandare se anche questo non sia proprio un attributo essenziale della vita; siamo tutt* irreversibilmente e costantemente contaminat* dalle nostre esperienze, dai vissuti quotidiani che non solo ci cambiano a livello cellulare (il semplice passare del tempo ne è una causa) ma che ci alterano senza possibilità di poter tornare indietro. Quante volte avrei voluto non aver letto, ascoltato, assistito o partecipato a qualcosa che mi ha trasformato profondamente. Ed è proprio quando proviamo a pensare la contaminazione come intrecciata alla trasformazione, intesa come crescita e cambiamento imprevisto che può scaturire da incontri inaspettati e caotici, è proprio in questo caso che è possibile intravedere il suo valore profondo ed il ruolo che essa gioca nelle nostre complicatissime, e tutto fuorché pure, vite.
1 A. Lorde, Sorella Outsider, (1984)
2 S. Ahmed, Strange Encounters, (2000)
3 R. Braidotti, Soggetto Nomade, (2011)
4 A. A. Wołodźko, “Living Within Affect as Contamination: Breathing in Between Numbers”, (2020)