La parola di questa settimana è “appropriazione”, il focus è sul ruolo degli alleati: quelle persone che pur non appartenendo a minoranze o non sentendo come proprie determinate lotte, ci tengono a schierarsi dalla parte degli oppressi. Il problema consiste nel come questo schierarsi si attualizza.

Ci sono innumerevoli gruppi di minoranze che rivendicano diritti, protestano abusi o richiedono riconoscimento, e altrettanti alleati pronti ad aiutare. Ma cosa si intende per aiutare? Dov’è il confine tra aiuto e appropriazione? O forse la domanda dovrebbe essere: c’è effettivamente un confine?

Analizzando il mero concetto di aiuto si deve affrontarne la struttura intenzionale: qualcuno aiuta qualcun altro. Questa struttura implica che ci sia qualcuno nella posizione di concedere l’aiuto, qualcuno che, quindi, è in una posizione privilegiata tale per cui può dare una mano all’altro, quello che da solo non può farcela. Quello che si può notare è dunque l’asimmetria talvolta abissale tra le due parti coinvolte.

Premesse: il ruolo di privilegio e “buona volontà”

Rispetto a ciò sono doverose due premesse. In primo luogo bisogna far presente che è innegabile che ci siano categorie di persone più privilegiate di altre. Per esempio in Europa per lo stesso lavoro le donne guadagnano in media il 15% in meno degli uomini all’ora. È comunque vero che gli stati membri dell’UE differiscono molto l’uno dall’altro, con divari retributivi che vanno dal 23% dell’Estonia al 3% della Romania. Oppure consideriamo il privilegio delle persone abili o magre, che hanno la più completa libertà di muoversi, mentre le persone disabili o grasse si scontrano con mancanza di rampe per le sedie a rotelle, scale, posti a sedere troppo stretti e altre barriere architettoniche. E poi ancora una persona cisgender sarà più privilegiata di una persona trans per il semplice fatto di non subire la mera cancellazione della propria identità a livello non solo sociale, ma anche istituzionale. Per fare un esempio, che comunque rappresenta solo la punta dell’iceberg della discriminazione delle persone trans ma che ben riferisce la capillarità del fenomeno, pochissime università danno la possibilità di avere un secondo libretto in cui non compaia il dead name dello studente T.

In secondo luogo è altrettanto innegabile che ci siano persone volenterose di usare il loro privilegio per tentare di colmare il divario che si viene a creare tra le varie categorie. Ma questa buona volontà fin troppo spesso si sposa con meccanismi di sopruso inconsci e interiorizzati a tal punto da essere molto difficili da decostruire, meccanismi che pongono la persona privilegiata come il concessore dell’aiuto, spesso e volentieri conditio sine qua non del buon esito della lotta. Insomma, si delegittimizza la capacità della categoria oppressa di poter rivendicare in modo efficace senza l’aiuto di un salvatore.

White Saviourism, una narrazione distorta

È il caso del White Savior Industrial Complex (WSIC). Il termine venne coniato nel 2012 dallo scrittore afroamericano Teju Cole per indicare la confluenza di pratiche e processi che reificano inequità storiche per porre in una posizione di maggior valore il privilegio bianco. La dinamica che si attua prevede innanzitutto una connessione emotiva della persona bianca e privilegiata che si sente in dovere di aiutare la minoranza etnica oppressa a emanciparsi dalla sua condizione di inferiorità, dipingendo di conseguenza il mito del salvatore bianco. Emblematica è la tendenza a considerare i paesi in via di sviluppo come poveri, affamati, distrutti dalle malattie e non civilizzati che impone per antitesi l’ideale dell’uomo occidentale ricco, acculturato e misericordioso che si impegna per la salvezza della popolazione meno fortunata. Il fenomeno della colonizzazione è stato in passato giustificato con questo meccanismo e ora si riattua in una società cosmopolita con l’integrazione delle minoranze etniche, cui viene imposto l’ideale occidentale. Insomma, le narrazioni distorte che dipingono i paesi in via di sviluppo come arretrati non fanno che perpetrare un ideale di supremazia bianca. Il WSIC è un meccanismo interiorizzato che sta sullo sfondo di vari pregiudizi come quello della persona nera violenta e stupida che deve essere educata. Cheryl Matias in Feeling white: Whiteness, emotionality, and education (2016) illustra come insegnanti ed educatori vengano indottrinati ad assumere questo meccanismo. Solitamente l’insegnante si configura come la persona bianca di buon cuore dalle migliori intenzioni, eroe o eroina liberale che salva gli studenti neri e di colore dal fallimento. È anche il caso di associazioni che si presentano come caritatevoli e che più o meno involontariamente mettono in atto questo meccanismo, presentandolo ai più come sensato, ma che perpetra dinamiche di abuso. Come scrive Cole: «The white savior supports brutal policies in the morning, founds charities in the afternoon, and receives awards in the evening».

Alleati protagonisti

Quella di agire come salvatore della minoranza oppressa non è tuttavia l’unica modalità tossica con cui alcuni alleati agiscono. Un altro caso è quello dell’alleato che, in quanto alleato, pretende di occupare un posto all’interno della comunità oppressa, come a chiedere un riconoscimento del suo impegno di persona privilegiata e perfettamente integrata nella società che si propone di aiutare.

Famoso è lo scivolone di Freeda, il celebre canale mediatico femminista-pop finanziato dal capitale Berlusconi, che in un articolo del 9 giugno scrive: «“Ally” indica chiunque appartenga a un gruppo dominante ma combatta per i diritti di una minoranza. Gli Straight Allies sono infatti le persone eterosessuali e cisgenere che sostengono la causa LGBTQIA. La “A” finale dell’acronimo allude, oltre che alle persone asessuali, proprio a questa particolare categoria di cittadini. Ma come – forse qualcuno di voi si chiederà – anche una persona etero o cis può considerarsi parte della comunità LGBT+ e partecipare di diritto alle sue manifestazioni? Certo che sì!»

E invece no. La ragione per cui non si può e non si deve inserire la “A” di alleato all’interno della comunità LGBTQIA+ è che le persone eterosessuali, allosessuali, cisgender e monogame occupano già nella società una posizione privilegiata e, se non lo fanno, sicuramente le loro difficoltà non derivano dall’essere eterosessuali e cisgender. Che queste persone pretendano di occupare il solo posto sicuro per tutte le persone che non corrispondono all’ideale normato è problematico.

Milano Pride 2020

Ma Freeda non è l’unica a porre al centro gli alleati. Lo slogan del Pride di Milano del 2020 è stato #famiglieresistenti, in riferimento alle famiglie con genitori omosessuali e a quelle con figli appartenenti alla comunità LGBTQIA+. Le associazioni che insieme al Coordinamento Arcobaleno hanno proposto questo tema sono state Famiglie Arcobaleno, associazione che si occupa di famiglie con genitori omosessuali, Rete Genitori Rainbow, associazione di genitori LGBT con figli avuti da precedenti relazioni eterosessuali e Agedo, associazione di genitori, parenti e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender.

Dal momento che per via del Covid-19 tutte le manifestazioni sono state disdette, il Coordinamento Arcobaleno ha optato per una “staffetta rainbow” che attraversa i luoghi di Milano «portando i nostri sogni, le nostre voci e le nostre istanze nella nostra città». Questa staffetta vede protagoniste alcune identità appartenenti alla comunità LGBTQIA+. All’appello mancano però la comunità kinky, le non monogamie etiche, le persone intersex, transgender (in particolare non binarie, agender, genderfluid), aromantiche e pansessuali. Perché? Alcune categorie come le non monogamie etiche e la comunità kinky spesso non vengono riconosciute come parte della comunità LGBT+ e perché per le altre categorie non c’erano persone disposte a partecipare alla staffetta.

Il Pride è un momento di lotta in cui ogni individuo facente parte della comunità scende in piazza per rivendicare, il fatto che una persona gay si faccia emblema di tutte le persone gay riduce una complessità e una ricchezza infinita all’esperienza di un singolo. Le persone che nel progetto si passano il testimone non sono nemmeno state elette a rappresentanti, si sono semplicemente inserite nella staffetta, facendosi portavoce di altre infinite identità.

Ma per tornare alla questione di alleati e appropriazione, nel video della staffetta sono presenti spezzoni che hanno per protagonisti la Sezione ANPI “10 agosto 1944” dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, la Pubblica Assistenza Croce Viola, gli alleati di Agedo e una persona migrante che dice apertamente di non far parte della comunità LGBTQIA+. Malgrado l’intersezionalità sia uno dei principi cardine dell’attivismo LGBTQIA+, questa intromissione è problematica perché gli alleati occupano il posto della minoranza presa in considerazione, non lasciano spazio alle voci della categoria discriminata che vede nel Pride un momento di lotta e rivendicazione. Insomma, per quanto l’intersezionalità delle lotte sia fondamentale, l’omobitransfobia, l’erasure e tutto l’ampio spettro della discriminazione sessuale, di genere e relazionale è vissuto solo da persone facenti parte la comunità LGBTQIA+ e solo da queste persone può, quindi, essere comunicato. Per di più la comunità è incredibilmente eterogenea, dare troppa rilevanza ad alcune parti perpetra un’idea tossica della comunità intera: il rifiuto della comunità kinky e delle non monogamie etiche aiuta a dipingere una minoranza più decorosa, in cui le famiglie omogenitoriali che vengono messe in una posizione di rilevanza sono perfettamente integrate nella società più ampia e vivono proprio come una famiglia con una madre e un padre eterosessuali, cisgender e monogami. Esattamente come le minoranze nere o di colore povere, ignoranti e abbruttite vengono salvate dall’eroe bianco, le identità promiscue e indecorose vengono salvate dall’eroe etero.

Come possono dunque gli alleati essere a tutti gli effetti alleati?

Il primo passo è la presa di coscienza del proprio privilegio: bisogna riconoscere che la società, i suoi meccanismi e le sue infrastrutture sono ritagliate su misura per solo alcuni tipi di individui e quindi prendere atto del divario che si apre tra la maggioranza privilegiata e la minoranza oppressa.

Segue poi l’ascolto attivo che serve per prendere atto delle dinamiche di sopruso specifiche e reiterate, perpetrate sulla minoranza. Solo in questo modo si può riconoscerle quando si attuano, per quanto sottili e capillari possano essere. L’ascolto attivo può far sorgere empatia: si riconosce l’altrui sofferenza come propria dell’essere umano. Quello che tuttavia non può esserci è immedesimazione: esistere come realtà discriminata apre un abisso di dolore puntuale che non si può capire a livello essenziale: è comprensibile solo se si esiste come queste realtà.

In ultima analisi, dunque, per essere alleati bisogna dare spazio alla differenza per lasciare che parli e si esplichi in tutta la sua ricchezza.

Un articolo di Ylenia Baldanza

Bibliografia

Cole T., The white savior industrial complex, 21 marzo 2020, The Atlantic. http://www.theatlantic.com/international/archive/2012/03/the-white- saviorindustrialcomplex/254843/2/

D’Accardi M., È Giunto Il Momento di Dimostrarsi dei Veri Alleati, 9 giugno 2020, Freeda. https://freedamedia.it/2020/06/09/e-giunto-il-momento-di-dimostrarsi-dei-verialleati/? fbclid=IwAR2S3EeQqcogWzwPtW7KEqq8taNsghdWDWQZXuNKl-OZFhr6nzZtkdpE91Y

Matias C. E., Feeling white: Whiteness, emotionality, and education, Sense Publishers, Rotterdam, 2016.

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