di Silvia Gualtieri
“Veglioni, festeggiamenti, baci e abbracci non saranno possibili. Dobbiamo prepararci a un Natale più sobrio, anche se pensiamo che ci si possa scambiare doni e permettere all’economia di crescere.”
Giuseppe Conte, novembre 2020
Queste frasi del premier Conte mi ronzano nella testa dalla fine di novembre. Il ragionamento è perfettamente sensato: c’è il covid, che si diffonde con i contatti umani (quindi no abbracci), ma c’è anche la peggior crisi economica mai vista perlomeno dal dopoguerra in poi, che si tampona facendo circolare denaro, facendo crescere i consumi. Quindi comprate regali, comprate, comprate, comprate! Ore straordinarie per Babbo Natale, insomma. È buffo, perché pensando a questa pila di regali da comprare la prima cosa che mi viene in mente non è affatto Babbo Natale. Quando penso al Natale, la prima cosa che mi viene in mente è sempre il Grinch.
Società di consumo
Misterioso essere verde col cuoricino rattrappito, protagonista di un popolare libro per bambini, il Grinch odia profondamente il Natale e ha degli ottimi motivi per farlo. Il Grinch odia il Natale – e odia soprattutto i regali – perché stanno al cuore di una società che l’ha rifiutato in quanto diverso, una società dove il valore di una persona è dato dal suo aspetto fisico e dalla quantità e dal prezzo dei regali che può comprare, nonché dallo splendore delle sue luci natalizie. Se vi sembra familiare è perché il mondo del Grinch è basato sulla società occidentale moderna, la cosiddetta “società dei consumi di massa”, basata sulla produzione industriale di beni e servizi destinati a essere acquistati da parte degli “utenti finali”, cioè noi. L’essere umano consumatore può essere agevolmente riassunto dal numero di beni e servizi consumati. Secondo dati raccolti da National Geographic nel 2008, ogni americano consuma nel corso della vita:
156 spazzolini da denti
200 bottiglie di shampoo
272 deodoranti
5 frigoriferi
10 televisori
15 computer
12 automobili (per un totale di circa 142.520 litri di benzina)
A questi si aggiungono circa:
5.846 prodotti di bellezza (di cui 2.455 per la cura del viso)
3.000 capi di vestiario
400 paia di scarpe
E molte altre cose. Sono numeri senz’altro curiosi, ma anche piuttosto impressionanti, considerato che in Europa ci si ispira al modello economico americano. In Italia, nel 2019, solo per il Natale si sono spesi in media 549 € a famiglia, di cui il 40% in regali (a fronte di una spesa media mensile di 2.560 € durante tutto l’anno). Sappiamo che tutti gli oggetti consumati prima o poi diventano rifiuto e ormai sappiamo anche che molti di questi oggetti finiscono in discarica senza essere stati utilizzati appieno: ricordate il maglione con le renne che avete regalato a vostro cugino? Si stima che il 99% di quello che acquistiamo finisca nel cestino entro i primi sei mesi e negli ecocentri italiani si trova veramente di tutto ancora in buone condizioni. Ma se le cose stanno così… perché compriamo tutte queste cose?
Consumati dal bisogno
Ognuno di noi ha probabilmente una risposta a questa domanda. Un primo punto da tenere in considerazione è che l’acquisto di cose non necessarie è implicito nel meccanismo che sta alla base del nostro modello economico. La stragrande maggioranza dei beni e dei servizi che produciamo, commercializziamo e acquistiamo non sono strettamente necessari per la sopravvivenza (sono i cosiddetti beni secondari, che vanno al di là delle necessità primarie di cibo, acqua, riparo). Eppure, molte persone oggi non riuscirebbero a “vivere senza internet” che può voler dire sia che non saprebbero come impiegare le giornate senza Instagram, ma anche che dall’accesso ad internet dipendono il loro lavoro, il loro stipendio e la loro possibilità di acquistare anche beni primari come il cibo. Nel bene e nel male, le società industrializzate innovano e allargano sempre più la sfera di beni e servizi ritenuti “indispensabili”, creando nuovi standard per le vite dei propri membri. Quella che prima era un di più, una comodità (“il mio Nokia ha anche internet!”), diventa una necessità (“il mio smartphone deve avere internet”). Per sostenere la produzione, si creano nuovi bisogni che a volte sono realistici, se si tiene conto della società in cui si vive, ma per una grandissima parte sono totalmente illusori. Magari per vivere nella società moderna abbiamo bisogno di internet, ma abbiamo davvero bisogno delle scarpe della Lidl? La base del consumismo sta nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo, ossia nell’acquisto che non fa distinzioni tra una cosa e l’altra. Compriamo tutte queste cose non perché siamo smemorati e non sappiamo di averne venti uguali a casa, ma perché sentiamo di avere indiscriminatamente bisogno di ognuna di queste. Quindi se vogliamo la vera domanda è: perché non riusciamo più a distinguere un bisogno reale o realistico da un bisogno fittizio? Perché riescono a venderci anche le scarpe della Lidl?
Tra vergogna e perfezione
I beni primari come cibo e acqua rispondono a bisogni primari degli esseri umani (non morire di fame e sete) e allo stesso modo nel mondo moderno i beni secondari ci vengono presentati come la risposta a un particolare bisogno secondario: il bisogno di sentirsi parte di una comunità, il bisogno di essere amati e accettati. Se il mondo che ci sta intorno riesce a convincerci che per essere amati e accettati dobbiamo comprare un Iphone all’anno, questo è quello che faremo. Uno degli aspetti più interessanti del consumismo è appunto legata a questo concetto.
Sappiamo che i bisogni fittizi che ci inducono a comprare cose di cui non abbiamo bisogno sono indotti dalla pubblicità, dai social media, dalla pressione sociale. La parola consumo raccoglie già in sé due facce del consumismo: la dissipazione di beni e la creazione di nuovi standard. Consumare deriva infatti non da uno, ma da due termini latini, con due diversi significati: consumere, ossia usare, sprecare, ridurre a nulla e consumare, che voleva dire dare compimento, rendere perfetto qualcosa. Le immagini che vediamo e i messaggi che ascoltiamo ci dicono che acquistando quel prodotto diventeremo diversi da quello che siamo. Diventeremo più belli, più attraenti, più sani, più intelligenti… in una parola: perfetti. E che in questo modo potremo essere amati, accettati e sentirci felici. Ma gli esseri umani non sono perfetti: la perfezione indica qualcosa di finito e cristallizzato e noi cambiamo minuto per minuto. Un essere umano, per essere “perfetto”, dovrebbe essere morto e imbalsamato. Eppure, l’epoca in cui viviamo è ossessionata dalla perfezione, dall’essere “la migliore versione possibile di noi stessi”, dall’apparire “senza difetti”. Le pubblicità e i social fanno centro e riescono a creare dei nuovi bisogni perché si appoggiano su un divario insanabile: quello tra una “perfezione” ideale e artificiale (ma presentata come raggiungibile) e la realtà umana, che non può essere “perfetta” perché complessa e in continua evoluzione. Il nostro modello economico e sociale ci ha presentato per decenni l’idea che esiste una vita perfetta e che questa perfezione può essere raggiunta, perché abbiamo infinite possibilità di scelta e siamo artefici del nostro destino. Avere un’apparenza perfetta dipende interamente da te, devi solo impegnarti abbastanza per trovare la tonalità perfetta di fondotinta. Ma anche avere un lavoro perfetto dipende interamente da te e dalle tue scelte. Anche nella scuola e fin da piccolissimi ci viene presentato un mondo fatto di standard da raggiungere e soprattutto mantenere: devi prendere il massimo, se non lo prendi sei pigro o sei stupido, ma se prendi dieci una volta, vuol dire che sei in grado di farlo e se non succede più, vuol dire che non ti impegni abbastanza. Da un lato abbiamo quindi un modello socioeconomico che ci propone costantemente nuovi standard in tutto, dalla quantità di gadget che acquistiamo per il telefono ai voti che prendiamo a scuola, standard presentati come raggiungibili se solo lo si vuole e come indispensabili per ottenere stima, amore, accettazione. Dall’altro, abbiamo la nostra realtà di esseri umani: ogni minuto diversi dal minuto precedente, soggetti a cambiamenti biologici durante tutto il corso della vita, dotati di una mente stratificata e complessa e immersi in un mondo ricco di infinite variabili che non possiamo né prevedere né controllare. E in mezzo, tirati tra questi due poli, una popolazione di esseri umani sempre più pieni di vergogna per le loro naturalissime “imperfezioni” e per gli standard che non riescono a raggiungere. E sempre più isolati gli uni dagli altri. Come riassume bene Brené Brown, la vergogna è, semplificando, quella vocina nella nostra testa che ci dice che non siamo abbastanza. Che non siamo abbastanza bravi, belli, adeguati. Che non siamo “perfetti”, ma intrinsecamente sbagliati. Un modello sociale improntato al consumismo è destinato a far crescere questo sentimento di vergogna e ad alimentarsene: più mi sembra di non riuscire a raggiungere gli standard, più mi vergogno, più cerco modi per cercare di raggiungere questi standard o per ridurre il dolore. Anche per questo motivo, nonostante il coronavirus, sarebbe importante continuare a tenere al centro del discorso il fattore umano, non solo i beni di consumo.
Il Grinch è stato scritto nel 1957 e già allora denunciava la commercializzazione del Natale a discapito dei rapporti umani. Nel finale della storia, il Grinch dice una frase tradotta con: “Può darsi che il Natale non venga dal supermercato. Può darsi che il Natale abbia un significato più complicato”. Al di là delle metafore religiose, sarebbe bello svegliarci domani in un mondo dove gli umani possano credere che amore, accettazione, condivisione e appartenenza non vengano dal supermercato, ma che ci sia in loro un valore intrinseco che possa essere usato per gli altri e con gli altri. E forse questa crisi potrebbe essere un buon momento per cercare di cambiare il modello di società in cui viviamo. In attesa di questi cambiamenti, però, credo che il prossimo curriculum lo manderò al Polo Nord: Babbo Natale quest’anno avrà bisogno di folletti extra.