di Matilde Cesareo
Lo sguardo dominante
Tutte le opere di cui abbiamo parlato nell’articolo precedente hanno un aspetto che le accomuna: una modalità di raffigurazione nelle arti visive chiamata “dominant gaze”.
Per comprendere meglio di che cosa si tratta, è utile fare un passo indietro e definire il “male gaze”, lo sguardo maschile. Il termine, coniato dalla critica cinematografica Laura Mulvey, identifica la modalità in cui sono sistematicamente state rappresentate le donne, ossia seguendo schemi dettati da uno sguardo maschile eterosessuale (perchè gli uomini eterosessuali erano e sono la maggior parte degli artisti in ogni campo). Il “male gaze”, rispecchiando una visione patriarcale del mondo e dei suoi soggetti, va dunque a braccetto con la rappresentazione delle donne come oggetti sessuali e stereotipati. Chiaramente Mulvey nel pensare al “male gaze” si riferiva di più all’arte cinematografica, ma questo concetto si presta facilmente a tutte le arti visive ed anche alla letteratura.
Adottando un punto di vista più ampio e intersezionale, potremmo chiamare “sguardo dominante” lo sguardo maschile eterosessuale ma anche quello bianco e imperialista su “oggetti dell’arte” che sono donne e/o persone nere o di colore viste come “esotiche”, “selvagge” o iper-sessualizzate.
Seguendo il meccanismo dello sguardo dominante, alla fine dell’Ottocento, era frequente che le persone nere fossero approcciate nella stessa maniera in cui si guardano gli animali allo zoo o come si guardavano i “freaks” al circo. A causa di una separazione razziale e di classe abbastanza netta, per la borghesia francese bianca non era frequentissimo vedere persone nere vivere la loro vita quotidiana semplicemente per le strade di Parigi e ciò faceva sì che fosse invece prassi vederle nei luoghi di spettacolo o circensi. Prova di ciò sono due opere di Henri de Toulouse-Lautrec ed Edgar Degas.

Nell’opera intitolata Chocolat danzante (1896), Toulouse-Lautrec, che tipicamente dipingeva scene di ambienti di spettacolo, burlesque e locali notturni, ci mostra Chocolat, appunto, un clown nero che intrattiene uomini in un bar. Il vero nome di Chocolat era Rafael Padilla, ed è considerabile il primo artista nero della Parigi di quegli anni.

La seconda opera è di Edgar Degas, uomo dalla condotta quantomeno discutibile anche per i suoi tempi, famoso per i quadri che raffigurano ballerine in tutti i modi possibili. Sui comportamenti sessisti e predatori di Degas e sulle problematiche dell’essere ballerina in quel momento storico a Parigi sorvoliamo per lo scopo di questo articolo, anche se è un argomento da approfondire (ci sono risorse relative a fine articolo). Nel dipinto che interessa a noi in questa sede, Degas mostra gli ambienti circensi di fine Ottocento, ritraendo la protagonista, Mademoiselle La La, in un quadro dal titolo: Miss La La at the Cirque Fernando (1879). Anche questo dipinto ci mostra una scena di spettacolo con protagonista una persona nera, in questo caso una donna dalle fattezze diverse dai corpi canonici dell’epoca – più formose – appesa a una corda con i denti. Miss LaLa era la performer di punta del Cirque Fernando, conosciuta come “la donna cannone” dal suo numero più pericoloso: dondolando a testa in giù dal trapezio, sorreggeva un cannone con i denti e lo faceva sparare da quella posizione.
Da una parte dunque vediamo un clown nero che intrattiene gli ospiti per il fatto di essere nero e dall’altra una acrobata che fa cose pericolosissime e che richiedono una forza immensa, attributo stereotipato delle donne nere considerate dalla cultura coloniale e suprematista bianca come più forti, selvagge, sensuali, animalesche. È quindi evidente come l’approccio verso “il diverso” fosse particolarmente accentuato e le persone nere del tempo fossero sfruttate come mezzo di intrattenimento e di scoperta dell’”esotico”.
Paul Gauguin: vita, parole, opere e omissioni
Personalmente ritengo che l’emblema assoluto dello “sguardo dominante” sia proprio Paul Gauguin, protagonista di questo articolo, ma prima di capire le ragioni per cui gli attribuisco un ruolo così carico di responsabilità, facciamo una panoramica su chi è stato e cosa ha fatto.
Eugéne Henri Paul Gauguin nasce nel 1848 a Parigi e passa una parte dell’infanzia a Lima, in Perù, dove membri della famiglia della madre, Aline Marie Chazal, risiedevano. La decisione di spostarsi era seguita all’insorgere dell’instabilità politica in Francia a causa di Napoleone (1848), per cui il padre di Gauguin aveva deciso di portare tutta la famiglia al sicuro oltreoceano. Nel 1855, dopo la morte del padre, la famiglia però si sposta di nuovo in Francia a causa di difficoltà economiche e del clima politico difficile. Seguono anni complicati per Gauguin, anni in cui il suo accento spagnolo lo isola dai suoi coetanei e in cui il suo rendimento scolastico veniva considerato deludente.
Il nostro giovane esploratore decide così negli anni ‘60 di imbarcarsi come allievo pilota su una nave mercantile, visitando il Perù, il Brasile e l’India. Alla notizia della morte della madre torna a Parigi e si trova immerso nella guerra franco-prussiana, scoppiata proprio in quegli anni; si deve arruolare. In quel periodo però si avvicina a quello che era stato il compagno della madre dopo la morte del padre, Gustave Arosa, grazie al quale riesce a trovare un impiego che gli permette una vita agiata.
Nel 1873 si sposa con una donna danese, Mette Gad, con cui ha cinque figli. Ricordatevi di questa donna, perchè pare lui invece se la scordi presto, ma ha importanza nella storia!
Comincia a nascergli la passione per la pittura, produce qualche quadro che non ha nessun successo e colleziona opere di impressionisti a lui contemporanei.
Nel 1883 perde il lavoro e decide di dedicarsi completamente all’arte e di dipingere a tempo pieno (la moglie aveva cercato di dissuaderlo e di convincerlo a pensare al sostentamento economico suo e della famiglia, ma lui sembrava dicesse “Mette chi? Non conosco nessuna Mette”). I quadri di Gauguin continuano a non vendere e così, in un guizzo di intraprendenza, Mette lo saluta e si trasferisce a Copenaghen dalla sua famiglia, portandosi dietro i figli.
Dopo un breve soggiorno in Bretagna, in fuga dalla metropoli francese, Gauguin decide di partire e di andare a Panama e poi a Martinica, di cui ci offre questa descrizione:
«Siamo sistemati in una capanna ed è un paradiso a due passi dall’istmo. Davanti a noi il mare e alberi di cocco, sopra di noi alberi da frutta di ogni specie […]. Ne**i e ne**e vanno in giro tutto il giorno con le loro canzoni creole e un eterno chiaccherio, che non è monotono, ma, al contrario, molto vario […]. Una natura ricchissima, un clima caldo, con frescure intermittenti. Con un po’ di denaro, qui c’è di tutto per essere felici»
Paul Gauguin
Come appare chiaro da questo passaggio, la popolazione del luogo non solo viene infantilizzata dal pittore ma diventa parte del paesaggio naturale come il cinguettio degli uccelli (ma attenzione che, come se non bastasse, diventerà anche arredamento, accompagnamento…). Dopo essersi preso malaria e dissenteria (il karma?) Gauguin decide di tornare in Francia, stremato dalla mancanza di soldi e dalla debolezza fisica. Il desiderio di fuggire dalla Francia è però sempre più vivo nell’artista, che decide di mettere all’asta tutti i quadri che possiede e di usare i soldi così ottenuti per andare a Tahiti (quei soldi, novemila franchi, erano tanti per lo scopo che aveva lui, eppure la moglie a Copenaghen non ha visto mezzo franco).
Al suo arrivo a Papeete, la capitale di Tahiti, il nostro esploratore è molto deluso: i colonizzatori francesi e i missionari cattolici avevano “occidentalizzato” troppo la popolazione del luogo. Alla ricerca di un posto “selvaggio”, “primitivo” e “incontaminato”, si sposta nei villaggi più lontani e più piccoli. Si porta dietro Titi, una donna meticcia che scarta poco dopo perchè secondo lui è “troppo occidentale” e non gli permette di continuare la ricerca artistica nella direzione che ha in mente. Conosce poi Tehura, ragazzina tredicenne che scarta poco dopo perchè era troppo giovane per partecipare ai riti tribali (riti ai quali il pittore avrebbe voluto avere accesso sempre per la sua “ricerca artistica”).
Di nuovo finisce i soldi, i quadri che manda in Francia rimangono invenduti ed è costretto a chiedere il rimpatrio. A Parigi vive con una donna meticcia giavanese, Anna, che appena ne ha l’occasione gli ruba i soldi e scappa facendo perdere ogni traccia di sé. Torna di nuovo a Tahiti, incontra Pahura, quattordicenne che gli sta accanto fino alla morte nel 1903 e che gli dà due figli, ma che come ricompensa ottiene la sifilide, contratta da Gauguin in Francia.
Nel suo ultimo soggiorno a Tahiti aveva sviluppato un’intensa attività politica contro i colonialisti, che gli costò una condanna dalle autorità del luogo. Nonostante sia abbastanza chiara la mia posizione rispetto alle azioni di Gauguin (alla sua arte arriviamo tra poco), è giusto riportare anche l’esistenza di visioni diverse, persino all’interno di approcci femministi alla storia dell’arte, proprio dovute a questo suo “anticolonialismo”.
Il fatto che Gauguin abbia voluto andare via dalla Francia, sentendo la pulsione a fuggire dalla società per cercare un’alternativa più libera e più scevra di giudizio, viene spesso visto da queste correnti d’interpretazione come una critica legittima alla società francese del tempo che gli fa magicamente acquisire punti-grifondoro. È anche vero, oserei ricordare, che una delle cause che lo spinsero a partire era l’estrema difficoltà economica che si trovava ad affrontare, i suoi quadri non vendevano e questo gli provocava estrema frustrazione. Ma anche ammettendo che il suo intento fosse genuino e che vedesse tutti i limiti e le ingiustizie della società francese di fine Ottocento, perché scegliere un posto già abitato e colonizzato in cui esercitare il potere imperialista? Viene da chiedersi se quello che gli interessava non fosse la libertà, ma il potere. Sull’impatto dei colonialisti e dei missionari sulle abitudini del luogo disse che lo riempiva di orrore vederne le conseguenze (per esempio, le persone erano vestite e non nude come le avrebbe preferite lui).
Il comportamento prevaricatore di Gauguin nei confronti di popolazioni che lui stesso riteneva “selvagge” è stato difeso in numerose occasioni, soprattutto da persone a lui successive (addirittura Camille Pissarro, pittore maestro di Gauguin, affermò: “Gauguin fa sempre del bracconaggio nella terra di qualcun altro; al giorno d’oggi sta saccheggiando i selvaggi dell’Oceania”), adducendo come motivazione il fatto che le ragazze tahitiane maturassero prima di quelle occidentali. lo storico dell’arte René Huyghe, morto nel 1997, millenovecentonovantasette, diceva che i tredici anni delle ragazze di Tahiti fossero i 18 delle occidentali. Vi ricorda qualcuno? Giusto! Montanelli!
Ma al tempo la pedofilia esisteva come concetto? In Francia era condannata? Moralmente condannabile? O era giustificabile in qualche modo? Gauguin sapeva che era sbagliato? In una legge del 1832, in Francia viene dichiarato illegale “commettere un atto indecente nei confronti di bambini sotto gli 11 anni”; l’età sopra cui era possibile sposarsi era 15 anni per le ragazze e 18 anni per i ragazzi. Questo fa immaginare che Gauguin fosse chiaramente consapevole del fatto che in Europa non avrebbe potuto “prendere in moglie” bambine di 13 e 14 anni, ma che in qualche modo lo status “selvaggio” o “meno umano” della popolazione presso cui si trovava e il sollevarsi automatico di qualsiasi legge civile e morale gli permettesse di comportarsi esercitando il suo potere senza vincoli di coscienza.
Un’obiezione che mi si potrebbe muovere è questa: d’accordo, lui era una persona spregevole, ma i quadri sono belli e nell’estetica non c’è niente di male, bisogna separare l’arte dall’artista. Premesso che non credo sia possibile separare l’arte dall’artista (ma questo sarà nel caso argomento per un articolo successivo), adesso parliamo del perchè anche i suoi dipinti sono problematici. Ovviamente non sto parlando in questa sede del valore stilistico, artistico, di composizione o di scelta di luci e colori, ma soltanto delle questioni etiche che vi sottostanno.
L’arte di Gauguin viene definita dagli storici dell’arte “Arte Primitiva”, denominazione che già porta con sé una serie di questioni non da poco: primitivi sono i soggetti della sua arte, non il suo modo di dipingere, dunque già c’è un giudizio specifico nei confronti dei “selvaggi tahitiani non civilizzati”, rimasti indietro, incontaminati.


Una delle sue opere più famose è Lo spirito dei morti veglia (Manao tupapau), chiaramente ispirato all’Olympia di Manet (di cui abbiamo ampiamente discusso nell’articolo precedente). La protagonista di Manet era una prostituta, riconoscibile da diversi simboli nel dipinto, insieme alla sua domestica, qui invece è una donna tahitiana insieme allo “spirito” indicato nel titolo. Pur essendo un quadro molto evocativo, e interpretato come la sconfitta della paura della morte, non si può negare che la nudità (intenzionalmente scelta dal pittore per rendere la figura più sensuale) e la posizione della donna abbiano un senso di provocazione sessuale. Se si pensa all’età che aveva la donna dipinta – circa 14 anni – il tutto è quantomeno di dubbio gusto.
Un’altra opera molto famosa è Les Seins aux fleurs rouges, traducibile in italiano come “I seni coi fiori rossi” e ritrae due donne tahitiane di cui una con in mano un vassoio di fiori di mango. L’idea di ridurre le donne con i loro attributi sessuali già è problematico. Se però poi pensiamo che l’ispirazione per questo dipinto (e altri) erano le cartoline pornografiche francesi di fine Ottocento, la raffigurazione prende tinte oscure.
Nell’opera Aha oe feii? (What! Are you jealous?) ritroviamo lo stesso immaginario erotico delle cartoline, che spesso rappresentavano due donne nude interagire tra loro in una relazione lesbica feticizzata dallo sguardo maschile. Il titolo e lo sguardo della donna in primo piano rimandano proprio all’idea che ci sia qualcosa di cui essere “gelosi”.

Insomma, anche le opere di Gauguin, non solo le sue azioni, non sono prive di punti critici e raffigurazioni feticizzanti, razziste e sessiste. Inoltre, è evidente come in questo caso (come in molti altri) un approccio intersezionale sia fondamentale: non solo si parla di razzismo e sessismo, ma anche dell’intersezione tra le due cose. Moya Bailey, femminista nera e queer, coniò il termine “misogynoir” per descrivere il sessismo specifico che subiscono le donne nere, in questo caso donne di colore polinesiane. Le donne ritratte da Gauguin e che il pittore incontra nella sua vita non solo subiscono le azioni predatorie che lui avrebbe rivolto a qualsiasi donna europea, ma subiscono un’oppressione al quadrato, se vi aggiungiamo l’infantilizzazione, la primitivizzazione e la sottomissione coloniale.
La rivincita di artist* dell’Oceania
Nonostante i numerosi libri, saggi, ricerche di dottorato, tesi, articoli e conferenze sulla condotta e l’arte condannabili di Gauguin, ancora oggi un’opera del pittore non vale meno di 9 milioni di dollari e a lui continuano ad essere dedicate ogni anno mostre, libri, film e celebrazioni di ogni tipo. Le considerazioni come quelle contenute in questo articolo sono spesso respinte come se fossero solo espressione di rabbia femminista o un ulteriore rigurgito del “politically correct”.
Come riappropriarsi dunque della narrazione dominante di Gauguin? Artiste del XX secolo come Paula Modershon o Amrita Sher-Gil, pur non essendo tahitiane, si autoritraggono nello stile di Gauguin nel tentativo di riprendere in mano la propria rappresentazione, sfidando un canone artistico che non era solo eurocentrico ma anche ad appannaggio esclusivamente maschile.


Un’altra artista, la hawaiana Debra Drexler, ha analizzato all’inizio degli anni 2000 l’eredità colonialista di Gauguin creando un’intera mostra dal titolo Gauguin’s Zombie. fatta di installazioni, ambienti, dipinti di grandi dimensioni e objets trouvés. Altri artisti come Kay George e Tyla Vaeau compiono interventi artistici interessanti sulle loro identità post-coloniali inserendo proprie fotografie nei facsimili dei dipinti dell’artista.
L’artista statunitense di origine africana Kehinde Wiley (lo stesso Wiley che era stato incaricato da Obama di dipingere il suo ritratto ufficiale) ha invece dipinto una serie di opere titolata “Tahiti” in cui ha rimosso tutti gli elementi che considerava problematici di Gauguin. L’artista stesso ha ammesso di riconoscere in Gauguin un riferimento artistico importante ma di non poterne negare la problematicità. Per esempio, nel titolo di ogni quadro della serie è indicato il nome della modella ritratta: un ottimo modo per ricordare che ogni corpo appartiene a qualcun* e non esiste solo per essere guardato.
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