di Elena Ascione
Per portare avanti un linguaggio inclusivo questo articolo utilizza la tecnica dell’elisione finale delle vocali.
Una delle battaglie portate avanti da Fra(m)menti è quella per la diffusione di un linguaggio accessibile e inclusivo di tutte le identità di genere per contrastare la natura profondamente sessista della lingua italiana e dell’uso che ne facciamo. Siamo un collettivo composto da diverse individualità con visioni e preferenze diverse sulle tecniche ad oggi diffuse per rendere la lingua italiana più inclusiva, di conseguenza vogliamo rendere esplicito a chi ci legge che nei nostri articoli (così come nella nostra comunicazione sui social) potrete trovare una varietà di tecniche mobilizzate per raggiungere lo stesso fine: un linguaggio inclusivo e accessibile.
ContraPoints e la dissezione della cancel culture
Natalie Wynn, Youtuber americana i cui video trattano di politica, identità di genere, etica, anti-razzismo e molto altro, ha pubblicato un saggio visual il 2 gennaio 2020 intitolato “Cancelling” sulla cultura della cancellazione e la sua personale esperienza di cancellazione da parte della stessa comunità di persone trans e di sinistra di cui fa parte, a seguito di alcune sue azioni e dichiarazioni che invalidavano le persone non binarie. ContraPoints – il nome d’arte di Natalie Wynn su Youtube – è nota per i suoi saggi visual di un’estetica e arguzia stupefacenti e questo video è, per me, non soltanto uno dei migliori, ma è anche stato parte integrante della mia personale formazione sul tema della cultura della cancellazione.
In “Cancelling” Wynn presenta la versione più nota del dibattito sulla cancel culture, affermando che essa si articola sempre o quasi su questi due estremi: da un lato ci sono conservator e paladin della libertà di espressione che si lamentano a gran voce del clima di terrore e censura di cui quest millennial snowflakes si fanno portavoce; dall’altro progressist, attivist e altre personalità sinistroidi che sostengono non esista nessuna cultura della cancellazione ma che si stia solo finalmente obbligando chi detiene il potere a prendersi la propria responsabilità e che tutto questo dissenso conservatore è solo un piagnisteo colpevole ed impaurito.
Spesso polarizzare un tema significa offrire dei punti di vista binari, estremizzati ed estremizzanti e, a noi, ste cose fanno un po’ schifino.
Wynn disseziona la cultura della cancellazione in cinque elementi principali:
- Presunzione di colpevolezza
- Astrazione
- Essenzialismo
- Pseudo-moralismo o pseudo-intellettualismo
- Nessun perdono
I punti su cui mi voglio concentrare sono il primo, il terzo e il quinto. Perchè i numeri pari ci fanno cagare.
Nel diritto e nella procedura penale occidentale, afferma Wynn, la presunzione di innocenza è il principio per il quale l’imputat è innocente fino a prova contraria. Nessun è considerato colpevole fino a condanna definitiva. Questi sono due dei pilastri del nostro sistema giudiziario. Tuttavia, in una società in cui alcune identità sono marginalizzate e oppresse sistematicamente – discriminazioni che, più spesso di quanto ci piace credere, il sistema giudiziario amplifica, non rettifica – possiamo intuire come questi principi non trovino un’applicazione pratica e rimangano principi solo nella teoria. La cultura della cancellazione, dunque, attua un ribaltamento di prospettiva, agendo secondo il principio della presunzione di colpevolezza: “alle vittime si crede sempre, punto” è un grido di battaglia necessario in una società che alla vittime non crede mai, punto. Eppure non si può fare a meno di notare come questo grido di battaglia possa diventare “una norma facilmente abusabile” per usare le parole di Wynn.
Un’altra tecnica attuata dalla cultura della cancellazione, spiega Wynn, è l’essenzialismo che opera secondo questo meccanismo di pensiero: non si fanno affermazioni o compiono azioni razziste/abiliste/misogine/classiste/omolesbobiatransfobiche; si è delle persone razziste/abiliste/misogine/classiste/omolesbobiatransfobiche. Esistono persone intrinsecamente cattive? Essere persone razziste/abiliste/misogine/classiste/ omolesbobiatransfobiche rende molto più difficile cambiare, crescere, migliorare, riformarsi. Per quanto anche la concezione di identità come un qualcosa di stabile e fisso vada forse problematizzata, a livello socio-culturale siamo abituat a pensare che ciò che siamo ci definisce in maniera molto più significativa di ciò che facciamo.
L’ultima istanza che Wynn porta nella sua analisi dei principali elementi della cultura della cancellazione è l’assenza del perdono. La cultura della cancellazione impone di interpretare sempre e comunque qualsiasi tentativo di miglioramento o qualsiasi “scusa” come insincera, come un tentativo ipocrita di pulire la propria immagine. Non esistono persone riformate. Esistono solo persone intimidite che agiscono per pararsi il culo. O perchè hanno paura di essere punite.
Il “non si può più dire niente” contro Angela Davis… che situa
Ora, ci tengo a sottolineare (echeggiando un inciso che Wynn stessa fa nel saggio sopracitato) che sono perfettamente consapevole del fatto che la cultura della cancellazione e il politically correct (due facce della stessa medaglia per quanto mi riguarda) vengono branditi come simboli di oppressione dalle destre conservatrici per togliere legittimità e importanza a qualsiasi obiezione venga fatta su temi che riguardano la liberazione di categorie marginalizzate e la giustizia sociale. Chi muove queste accuse contro la cancel culture parla di libertà di espressione, di dibattito sano, di “libero scambio di informazioni ed idee” per citare la lettera aperta che 150 intellettuali e personalità del mondo artistico-culturale hanno pubblicato sulla rivista americana Harper’s a luglio 2020. Il titolo della lettera è “A letter on Justice and Open Debate”. Giustizia e Dibattito Libero. J.K. Rowling era una delle firmatarie per intenderci. E non spiccava nemmeno per le sue opinioni controverse tra quella folla, ecco.
Io ho due reazioni a queste posizioni: la prima è di rabbia (che sorpresa, sei sempre la solita femminista incazzata!) nei confronti di un’implicita chiamata al prestare attenzione e privilegiare in qualche maniera il benessere di chi opprime con le proprie azioni o le proprie parole altre persone. La paura atavica del “non si può più dire niente”, del “bavaglio” è spesso sintomo di un enorme privilegio e mancanza di autocritica nei confronti della posizione che si occupa nel mondo e del potere che si esercita su altr. Si può parlare, chiedere spiegazioni, mostrare dubbi, insicurezze e persino sbagliare cazzo; non si può ignorare chi ci fa notare la violenza che esercitiamo attraverso le nostre parole, le nostre azioni. Il “libero scambio di informazioni e idee” non avviene in un vuoto socio-culturale, car 150 intellettuali. Le parole, le battute, il linguaggio non sono neutri ma informano come viviamo la realtà, hanno un peso, e riconoscerlo significa mettersi in discussione in maniera radicale, scomoda e costante. Quando, nei miei sogni erotici più spinti, fantastico sulla cancellazione di Simone Pillon, sto dando sfogo ad un istinto legittimo di punire qualcuno che contribuisce attivamente alla mia oppressione, alla violenza su di me. Eppure c’è da domandarsi se all’istintivo bisogno di punizione sia opportuno far corrispondere delle azioni punitive.
La mia seconda reazione riguarda un altro dei meccanismi secondo i quali opera la cultura della cancellazione – su cui Wynn in realtà non si sofferma più di tanto nel suo saggio visual – ossia la deumanizzazione. Le persone cancellate vengono spesso (non sempre, ma spesso) sottoposte ad un processo di deumanizzazione molto simile a quello che subisce chi viene inglobato dal sistema carcerario. Angela Davis, nel suo famosissimo testo “Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale” (2003) scrive:
Il carcere funziona ideologicamente come un luogo astratto in cui vengono presi in consegna gli individui indesiderabili, sollevandoci dalla responsabilità di riflettere sulle reali problematiche che affliggono le comunità da cui i detenuti provengono in numeri così spropositati. È questa la funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in misura crescente, dal capitalismo globale.
Angela Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale” (2003)
L’intento della cancellazione non è mai quello di far riflettere qualcun, di offrire un’opportunità di miglioramento, di riformare persone che fanno, dicono cose violente o semplicemente sbagliate. L’intento è già insito nel nome: cancellare, far sparire, sollevare noi dalla “responsabilità di affrontare i problemi prodotti dalla nostra società” (Davis, 2003). Attenzione, il noi di cui parlo non è il noi delle persone bersaglio diretto della violenza: non sto certo insinuando che sia giusto lasciare l’onere ad una persona grassa di educare o correggere o prendere per mano chi per strada la aggredisce perché grassa. O a una persona trans. O a una persona nera. Il noi a cui mi riferisco è il noi massa critica potenziale di persone che la grassofobia, la transfobia, il razzismo non li subiamo sulla nostra pelle, è il noi delle persone grasse, trans, nere che se la sentono di prendere parola, supportate da loro alleat.
Mi trovo d’accordo con Wynn su come la cultura della cancellazione purtroppo, nella praticità dei fatti, non si sia rivelata lo strumento di rivalsa e giustizia per le minoranze che si era sperato fosse all’inizio. Più spesso di quanto ci rendiamo conto, la cancellazione viene invocata per inasprire il conflitto a fini quasi puramente di intrattenimento più che per una risoluzione equa alla violenza. Non condividerò le bestemmie che mi vengono all’idea che questa affermazione che ho appena fatto possa essere ridotta ad un “usare la violenza per combattere la violenza non ha senso, è ipocrita”. NO. No, no, no, nononononono. No perchè c’è una differenza fondamentale tra cancellare una persona e lottare per abolire un sistema di oppressione. Tra un atto punitivo verso un individuo specifico e una manifestazione violenta e rabbiosa verso uno stato, un’istituzione, un sistema economico.
Clementine Morrigan, scrittor e attivista anarcic, ecosocialist, poliamoros e creator del podcast “Fucking Cancelled” scrive sulla sua pagina Instagram: “affinché una cancellazione sia efficace, secondo l’opinione pubblica, la persona che ne è oggetto deve perdere lavoro, comunità e credibilità; in altre parole la cancellazione deve portare alla fine della vita affettiva e professionale di una persona”. Questo meccanismo online si trasforma spesso in minacce, molestie, aggressioni, insulti, violenze e lesioni della privacy, tutte cose che nascondono una fortissima dinamica di genere: proviamo a indovinare chi subisce più cancellazioni online? Saranno forse le donne e le persone non binarie non bianche? Dindindindin! Dieci punti a Grifondoro. La cancellazione come misura punitiva di giustizia fai da te da parte della folla senza nome dell’Internet, è sempre e di già priva di complessità. E’ sommaria e procede per meccanismi di decontestualizzazione e deumanizzazione. Porta forse ad un cambiamento sistemico? E’ davvero giustizia? Io ho seri dubbi al riguardo. Che poi appaghi una rabbia profonda millenni beh…questa è un’altra questione.
Dalla cancellazione dell’elite all’esigenza della perfezione
Riallacciandomi al tema delle dinamiche razziste e di genere insite anche nella cultura della cancellazione, c’è un’altra questione a cui vorrei dare spazio. Alle sue origini la cultura della cancellazione era stata concepita con una direzionalità precisa: dal basso verso l’alto. Da chi non ha voce a chi ha status, chi fa parte di un’elite. Purtroppo si può subito intuire come la teoria dell’oppressione (per la quale si finisce inevitabilmente a fare una piramide delle oppressioni trattandole come somma di elementi singoli e non come piani che si intersecano) non sempre funzioni al di fuori di cori in manifestazione e femminismi liberali. Qui entra in gioco un altro dato fondamentale che si ricollega all’esperienza di Natalie Wynn ma che, sarò sincera, tocca anche me in particolare: la cultura della cancellazione è migrata con rapidità da “cancelliamo Louis C.K. o R. Kelly” ad una minaccia, più o meno esplicita o più o meno velata nei confronti di chi fa attivismo e parla di argomenti che riguardano in generale temi sociali.
Mi è capitato di essere oggetto di cancellazione da parte della comunità di cui faccio parte. Mi è capitato di essere bloccata, essere screditata, accusata falsamente di varie cose di cui non entrerò nel dettaglio perché, francamente, sono cazzi miei. E ad ogni nuovo commento o voce di corridoio mi interrogavo sulle mie azioni, sul dolore che effettivamente potevo aver causato a qualcun, sull’essere o meno quella persona mostruosa che mi veniva riflessa da sconosciut su internet. C’era una sconvolgente sicurezza e presunzione epistemica da parte di persone che non mi conoscevano, che non sapevano nulla della mia vita nè delle mie relazioni; così sconvolgente e radicata questa presunzione epistemica, da farmi pensare che ogni cosa detta con tale sicurezza doveva essere, per forza, vera.
Da quando ho cominciato il progetto che è Fra(m)menti, la maggior parte del mio lavoro consiste nel trattare argomenti controversi, nel portare avanti, in un modo o in un altro, la lotta per la liberazione delle persone marginalizzate (sì porco cazzo, la lotta per la liberazione, non la parità di sta fava). Non c’è giorno in cui io possa fare quello che faccio senza far sentire qualcun a disagio, senza scontrarmi con qualcun. Eppure, ormai, il conflitto mi terrorizza. La paura di sbagliare e di sbagliare pubblicamente mi blocca, mi gela, mi chiude.
Vorrei essere in grado di ricordarmi che il conflitto non è automaticamente violenza (Sarah Schulman, “Conflict Is Not Abuse: Overstating Harm, Community Responsibility, and the Duty of Repair”) ma vorrei anche che capissimo che la cultura della minoranza modello, dell’attivista perfett, infallibile e onnisciente, è tossica e che questo modello è imposto soprattutto alle persone che già in qualche maniera vengono marginalizzate. Torno a citare Clementine Morrigan e i suoi post su Instagram che leggono:
La critica è un’espressione di disaccordo. È un’indicazione di dove il tuo pensiero diverge dal pensiero di un’altra persona. L’attenzione è sulle vostre azioni. Non è una valutazione essenziale del vostro carattere. La critica è delimitata. Lascia spazio all’altra persona per non essere d’accordo e non cerca di costringere o intimidire l’altra persona. Riconosce la nostra capacità di autodeterminarci e quella dell’altra persona. La critica è importante e necessaria. Il disaccordo può essere generativo. Crea uno spazio per osservare le cose da più prospettive. La critica è diversa dalla molestia.
Sbagliamo porca paletta, sbagliamo e sbagliamo meglio e sbagliamo comunque e sbagliamo pubblicamente
Quindi sbagliamo porca paletta, sbagliamo e sbagliamo meglio e sbagliamo comunque e sbagliamo pubblicamente. Prendendoci la responsabilità dei nostri sbagli, riflettendo sulle nostre azioni, ascoltando e migliorando, imparando, crescendo. Criticare la cultura della cancellazione non significa invocare un approccio liberale di compromessi non violenti e di “ma non era poi così grave” o di “ascolto le tue critiche ma devi moderare i toni”, nè tantomeno significa minimizzare l’effetto che certe opinioni, certe dichiarazioni fatte da persone con piattaforme e audience più o meno vasta possono avere nel perpetuare stereotipi dannosi e violenti che sono terreno fertile per violenze e crimini d’odio. Essere contro una cultura punitiva non significa neppure esortare automaticamente al perdono, ricorda Morrigan – distanziandosi da quanto scrive Wynn al riguardo – nè, aggiungerei, significa inneggiare alla totale mancanza di conseguenze per ciò che si fa o si dice.
Significa invece essere critic di soluzioni che riguardano le singole persone piuttosto che il sistema, significa diffidare di chi grida “fanculo la polizia” e poi si comporta da guardia con membr della sua comunità, significa pensare che nessun merita di essere disumanizzat, significa onorare e riconoscere la propria rabbia, il proprio dolore, la propria frustrazione verso chi ci opprime. Questi elementi, per me, non si sono mai esclusi a vicenda.
Smettiamo di pensare che la complessità sia nemica dei movimenti di liberazione. Rimaniamoci in mezzo al casino, guardiamo in faccia ciò che è scomodo. Non rifugiamoci nell’ingenuità di credere che nascondere un problema – o un essere umano – abbia mai risolto qualcosa.