di Chiara Lorenzi

Ammetto che, dal momento in cui mi è stato chiesto di scrivere un articolo sul futuro, qualche ombra di pensiero mezzo-suicida mi è venuta: effettivamente questo mio presentimento è stato confermato da tutte le persone che ho importunato, a cui ho proposto (leggi: imposto) un brain storming sulla parola “futuro”, appunto. Come volevasi dimostrare, le risposte non sono state delle più confortanti, riporto di seguito le meno tragiche: sconforto, buio, buio totale, depressione, panico, ansia, emoji del bollino nero.

Scema tu, penserete, perché in effetti che parole possono uscire riguardanti il futuro, da una generazione il cui futuro era precario ancora prima della pandemia?

Siamo cresciut* sentendoci ripetere che il mondo è in rovina, che non ci sono più le mezze stagioni (il che, immagino lo sappiate già, è una conseguenza del riscaldamento globale), che si stava meglio quando si stava peggio e che probabilmente faremo in tempo ad assistere all’apocalisse – termine biblico per indicare il collasso ecologico. Siamo l’unica generazione ad aver assistito a ben due crisi economiche mondiali (per ora) e non dimentichiamoci della rivoluzione tecnologica in atto che, seppur con i suoi vantaggi, sta causando nella società e nelle nostre vite dei cambiamenti così complessi e radicali da portare con sé, inevitabilmente, anche un sentimento generale di sopraffazione. Ah già, poi c’è la questione pandemia, su cui non mi dilungherò troppo perché penso se ne stia già parlando abbastanza.

Se, generalmente, i nostri genitori, figli del boom economico, pensando al futuro provavano un senso di speranza e fiducia che “andrà tutto bene”, i sentimenti provati da noi sono l’opposto: sconforto, perchè veniamo costantemente tempestati di informazioni riguardo alla crisi climatica, che ci vengono però presentate come se fosse già troppo tardi per rimediare; ansia, perchè abbiamo ereditato da chi è venuto prima le stesse aspettative rispetto ai traguardi della vita e all’età in cui ci sembra necessario raggiungerli, ma ci scontriamo con una realtà profondamente diversa, che non offre neanche la metà delle possibilità rispetto a prima; rabbia, perchè siamo consapevoli che quasi tutti questi problemi ci vengono passati come una patata bollente dalle stesse persone che li hanno causati e che non sembrano cercare attivamente delle soluzioni, ma che invece non perdono l’occasione per ribadire quanto siamo esagerati se esprimiamo il nostro malessere.

Il punto è che da generazioni veniamo mess* in guardia nei confronti del nostro passato, su quanto farsi condizionare troppo da esso possa crearci dei problemi nel momento presente, ma non mi sembra si parli molto (o da molto tempo) di quanto, da questo punto di vista, anche il futuro possa essere pericoloso.

Il fatto divertente (non proprio) è che riguardo al futuro la nostra società ha sempre sostenuto posizioni contraddittorie: devi preoccupartene se parliamo della tua faccia e delle tue rughe, ma nel frattempo viviti il momento e non pensare che l’hamburger che hai appena mangiato ha prodotto più CO2 di una fabbrica; fai bene a guardare i social e farti prendere dallo sconforto perchè probabilmente non otterrai mai un lavoro che ti permetta di postare foto di una spiaggia a Bali il Martedì mattina, ma da quanto tempo non assistiamo all’ascesa di una politica che si preoccupi per il futuro de* giovani? Devi produrre tanto e in sempre meno tempo, ma guai a diminuire di un’ora l’orario lavorativo in modo da lasciarti del tempo libero: perchè? Il capitalismo risponderebbe, citando Elogio dell’ozio di Bertrand Russell, “Perchè il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo”.

L’ossessione per gli obiettivi, la paura di invecchiare e la costante velocità che caratterizzano la nostra società sembrano aver deformato l’idea di tempo di qualità, polarizzando la concezione di tempo libero: o cazzeggi spegnendo completamente il cervello (vedi Netflix e social) o dedichi le tue energie in qualcosa di produttivo.

In Elogio dell’Ozio, Bertrand Russell sostiene che “Vi era anticamente una capacità di spensieratezza e di giocosità che è stata in grande misura soffocata dal culto dell’efficienza. L’uomo moderno pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso. […] I piaceri della popolazione urbana sono diventati soprattutto passivi. […] Questa è la conseguenza del fatto che tutte le energie attive si esauriscono nel lavoro.”

Non c’è quindi più tempo, nè voglia, per oziare (e sì, se questa parola vi sembra antiquata penso che sia proprio questo il motivo); ma l’ozio stimola la creatività e la noia ha sempre offerto spunti per osservare meglio il mondo che ci circonda: da quanto tempo non facciamo una fila senza tirare fuori il telefono, semplicemente guardando le altre persone che passano o che stanno aspettando insieme a noi?

La costante proiezione verso il futuro ci impedisce anche di essere completamente presenti a noi stess*, quindi di prenderci il tempo che ci serve per conoscerci fino in fondo: serve del tempo per fare introspezione e pensare al motivo per il quale abbiamo agito in un certo modo o abbiamo detto o pensato una determinata cosa, e parte di quel tempo viene assorbito dalle nostre preoccupazioni, nei momenti in cui non siamo distratti dal nostro telefono.

Ciò che ci viene rubato è quindi anche la propensione alla sensibilità e all’empatia verso le altre persone: se riuscissimo a preoccuparci di meno delle nostre ansie, ci verrebbe sicuramente più facile e naturale capire lo stato d’animo altrui e quindi essere più comprensivi verso l* altr*.

L’inclusivitá, sì anche quella hard-core tipica degli ultimi anni, non sarebbe così insidiosa se fossimo più allenati all’empatia, perché ci verrebbe molto più naturale pensare a come ciò che diciamo o facciamo possa influire sulle altre persone. È certamente una questione di prospettive e spesso anche di educazione (non apro il discorso sul ruolo che famiglia e scuola dovrebbero avere nell’educazione sentimentale perché questo articolo sarà già fin troppo lungo), ma anche di priorità: come non si diventa psicolog* senza studiare sui libri, non si diventa neanche sensibili e inclusiv* senza allenare l’empatia. 

Dalla fissazione per il futuro, il risultato e la carriera lavorativa deriva anche la divisione creatasi tra i diversi tipi di sapere. Ammettiamolo, quante volte avete chiamato la facoltà di Lettere o Filosofia “scienza delle merendine”? Io tantissime. 

Il sapere scientifico, necessario per il progresso tecnologico (quindi anche per lo sfruttamento dell’ambiente), è stato innalzato a conoscenza utile per inseguire una vita di successo, mentre le materie umanistiche, che invece si concentrano sulla natura dell’individuo e quindi permettono di sviluppare una maggiore sensibilità e introspezione, sono state relegate a studi di serie B, da affrontare solo nel tempo libero o se uno stipendio non è per te indispensabile.

A lungo andare, questa classificazione si è tradotta, nell’inconscio generale, nella tendenza a considerare il tempo dedicato all’introspezione come non-produttivo e quindi, in una società che fonda il valore degli individui sulla base di ciò che producono, come tempo perso.

SOCIAL E INTERNET

Anche i social riescono a farci vivere sentimenti contrastanti riguardo al futuro. Le potenzialità di una connessione così vasta tra gli individui sono infinite, ma la frustrazione derivante dal non sapere come sfruttarle in pieno, per apportare soluzioni concrete ai problemi di oggi per esempio, può essere altrettanto grande. Inoltre, nonostante faccia (quasi sempre) piacere avere maggiori possibilità di rimanere in contatto con persone della nostra vita che, altrimenti, forse avremmo perso di vista, è anche vero che il costante bombardamento di immagini (di vite spesso apparentemente perfette), a cui veniamo sottopost* appena apriamo il telefono, può produrre un senso di inadeguatezza in grado di condizionare l’intera giornata di alcune persone.

La stessa cosa vale per internet: se avere accesso a una mole di informazioni pressochè illimitata è un’enorme fortuna, ciò può diventare frustrante nel momento in cui la disinformazione diventa una colpa o ci vengono poste infinite opzioni tra cui non sappiamo scegliere. Delle tre dimensioni che conosciamo, il futuro è l’unico non ancora stabilito, quindi aperto. Il fascino deriva proprio dal pensare che niente è ancora scritto e che le nostre scelte di oggi possono determinare il nostro domani, anzi i nostri possibili domani. Ma quale dei tanti domani scegliere?

Con la pandemia arriviamo a +100 punti per la raccolta pentole del disagio e, alla FOMO derivante dall’utilizzo sempre più frequente dei social, aggiungiamo la consapevolezza che tempus fugit e che quindi tutte quelle cosine belle che facevi prima, tipo uscire alle 11 di sera (lo so, non ve lo ricordate, ma giuro che lo facevamo) e presentarti tutta (s)fatta al pranzo coi parenti del giorno dopo, a 70 anni, l’età che avremo quando ci riapriranno, queste cose forse è meglio che non le fai. La nostra generazione sta sentendo in pieno il peso del tempo che scorre inesorabile, mentre noi siamo chiusi in casa e ci perdiamo gli anni più belli in cui ci è permesso fare le cazzate più divertenti.

Ma davvero è meglio che, se hai 70 anni, certe cose tu non le faccia? Chi decide se, a una certa età, possiamo o no fare qualcosa senza sembrare anacronistici o pazzi? 

Anche l’utilizzo del tempo libero e ciò che scegliamo di fare per divertirci sono stati influenzati pesantemente da una società che ci vuole incasellati, secondo l’età, il genere o chissenefrega: ci sono età massime entro cui ti è moralmente permesso andare a ballare, mettere una gonna corta, uscire struccata, prendere droghe (bere o fumare no, questi vizi secondo lo stato puoi tenerteli anche dopo che muori, se ci riesci) o fare scherzi scemi.

Io penso a quando ero a Berlino e, alle 5 del mattino, mi sono trovata a parlare con una persona di 63 anni, che tra l’altro sarà andata a dormire sicuramente più tardi di me, e sono sempre più convinta che la soluzione stia dentro di noi. 

Non penso però che la solita frase da bacio perugina “l’età è solo un numero, importa quanti anni ti senti” sia del tutto vera: per poter vivere una vita il più serena possibile, oltre all’età che ti senti tu, penso sia molto importante anche l’età che la società ti impone di sentirti.

Ci saranno sempre le persone controcorrente, per fortuna, quelle pronte a sfidare i canoni del periodo, ma penso che sia anche l’ora che non sia più solo prerogativa dei visionari quella di fregarsene delle norme imposte, e che sia il momento di iniziare a cambiare la mentalità comune, di tutt*. 

LA PAURA DI INVECCHIARE

Per molte persone, donne sopprattutto, la paura del futuro si traduce anche nel timore di invecchiare.

Innanzitutto vorrei informare gli autori dell’articolo “La paura di invecchiare? inizia a 29 anni” che no, per le donne non inizia a 29 anni, ma dal momento esatto in cui compare il primo segno di espressione, quindi intorno ai 15 praticamente… anzi prima, perchè in realtà, anche se non hai le rughe – o se sei consapevole che i tuoi segni d’espressione siano in realtà, appunto, solo quello – è tuo dovere prevenirle, ovviamente con delle creme costose. 

Non mi dilungherò sulla questione degli standard di bellezza imposti dai media e dalle pubblicità perchè potremmo scriverci un libro, ma a tal proposito segnalo il profilo instagram di @Saramelotti_ , che nelle (molte) storie in evidenza affronta l’argomento con grande onestà e chiarezza. Ci basterà accennare al fatto che, anche sotto questo aspetto, l’ossessione per il futuro è funzionale alla nostra distrazione dal momento presente e, in questo preciso caso, anche a farci spendere molti soldi e tempo in trattamenti.

Come scrivono Maura Gancitano e Andrea Colamedici in “Liberati della brava bambina” (breve libro che consiglio a chiunque voglia indagare i meccanismi patriarcali di cui spesso siamo vittime, anche inconsapevoli): “Anche la menopausa e la vecchiaia nella vita di una donna rappresentano dei tabù, qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi. Bisogna correre ai ripari di fronte a eventi fisiologici (la perdita del ciclo mestruale, le rughe) perchè sono il segnale che non si è più desiderabili. Questo significa legare il fascino e l’energia femminile solo alla fertilità, laddove invece una donna matura può essere ancora più consapevole del proprio corpo, fascino, fuoco, e del proprio desiderio. In altre parole, pensare che la vita sia legata all’età anagrafica, e che solo da giovani si possa avere un’esistenza piena, significa privarsi di incontri e possibilità straordinarie, illuminate dalla luce della consapevolezza”

FUTURO E RELAZIONI

Anche per quanto riguarda le relazioni, la costante velocità che caratterizza le nostre vite oggi ci impedisce di dedicare abbastanza tempo a pensare a ciò che vogliamo davvero, e quindi finiamo per vagliare le uniche possibilità che ci sono sempre state presentate (relazione monogama classica) perché è sicuramente più comodo e immediato: chi me lo fa fare di passare le ore a leggere articoli sui modelli di relazioni non-standard? Non voglio assolutamente dire che un tipo di relazione valga meno di un altro, ma trovo strano che nella nostra vita abbiamo sicuramente passato molto più tempo a decidere quale piatto di un menù preferivamo piuttosto che quale tipo di relazione farebbe maggiormente al caso nostro. Sì, sto paragonando le relazioni al cibo: sia che decidiate di ordinare una pasta al pomodoro o qualche piatto molto meno ordinario, comunque scegliereste dopo aver letto tutto il menù, no?
La preoccupazione per il futuro è uno dei fattori su cui si basa anche il concetto di scala mobile relazionale, ovvero il modello preconfezionato che ci è sempre stato proposto per quanto riguarda lo sviluppo di una relazione amorosa: conoscenza, fidanzamento, matrimonio, casa insieme, figl*. Che lo vogliamo o no, inconsciamente saremo quindi portati a preoccuparci, spesso prima del necessario, a dove una relazione ci porterà. In quest’ottica, questo è controproducente sia per noi stess*, in quanto rende più difficile iniziare una storia con il solo scopo di godere della compagnia di qualcun*, senza aspettarsi nulla, ma anche per le altre persone, perché una rappresentazione così rigida delle relazioni inevitabilmente ci rende più inclini a giudicare chi fa scelte diverse a riguardo.

ANSIA PER IL FUTURO

Parlando di futuro, non riesco a non pensare a Brave new world di Huxley: tra le distopie, penso che sia quella più plausibile (per quanto riguarda il mondo occidentale), perché la società che descrive vive in un mondo in cui l’imposizione delle regole e del potere non avvengono principalmente tramite la forza, ma si basa sul concetto che una popolazione, se vive per lo più in modo agiato, tenderà a non ribellarsi. Se Orwell, in 1984, descrive bene la possibile degenerazione di un totalitarismo, Huxley sembra partire proprio dalla società capitalista: basti pensare a* bambin* che fin dai primi giorni vengono programmat* a godere solo delle attività praticabili a pagamento o al chiuso; alla popolazione che, pensando solo a svagarsi una volta terminate le solite ore di lavoro, sembra non rendersi conto dell’assoggettamento a cui è sottoposta; alla divisione sociale e lavorativa decisa ancora prima della nascita.

Ciò che Huxley sembra volerci ricordare è che, anche se viviamo una vita agiata e con molte comodità e nessuno ci costringe con la forza a fare determinate cose, questo non significa che siamo lontani dai pericoli di una distopia o che la società in cui viviamo non sia responsabile di orrori come la schiavitù e lo sfruttamento, solo perchè ciò non accade davanti ai nostri occhi. 

Rimanendo sul tema distopie, come non citare Il racconto dell’ancella, di Margaret Atwood? Non mi dilungherò a spiegarne la trama perchè penso sia un libro che vale la pena di essere letto e in alternativa avete pure la serie TV; vi basti sapere che le vicende si svolgono in un mondo in cui le donne hanno perso gran parte dei loro diritti e che quel tipo di società non è stato imposto dalla sera alla mattina, cosa che avrebbe sicuramente suscitato la rabbia e la rivolta di molti, ma a poco a poco, contando sul fatto che molte persone consideravano alcuni dei propri diritti come scontati. 

Tutto questo dovrebbe farci riflettere molto su come anche la nostra concezione di passato può influire sul nostro futuro: un classico esempio è sostenere che non ci sia più bisogno di alcun cambiamento in favore dei diritti delle donne o delle minoranze, solamente perchè rispetto a 10 o 20 anni fa sono stati fatti dei progressi a riguardo.

Mi piacerebbe non fosse necessario sottolineare la pericolosità di un ragionamento simile, ma le discussioni sotto ad alcuni post femministi di Instagram, o intorno al ddl Zan degli ultimi giorni, hanno confermato che siamo ancora molto lontani da una mentalità che possa permetterci di vedere le cose dall’alto, senza farci influenzare dal nostro privilegio, e apportare tutti i cambiamenti necessari affinchè chiunque abbia la possibilità di vivere serenamente. 

La preoccupazione per il futuro è, in quantità normali, il meccanismo psicologico che ci permette di impegnarci nelle attività che dobbiamo portare a termine. 

Nel momento però in cui questa cresce, diventando ansia, altro non fa che distrarci dal momento presente, l’unica finestra temporale in cui ci è permesso agire per cambiare il corso del tempo ed evitare proprio la versione del futuro che tanto ci spaventa.

Io penso che, come tutte le emozioni, anche l’ansia e la rabbia debbano essere riconosciute, accettate e vissute, con l’intento però di capire da dove derivino e riuscire quindi a trasformarle e incanalarle in ciò che dobbiamo fare, piuttosto che diventarne succubi.

Cosa fare allora, per evitare di tenere la testa sotto la sabbia e allo stesso tempo non farsi sopraffare dalle preoccupazioni? 

Smettere di giudicare le persone in base all’età o a quella che dimostrano, cercare modi per avere un impatto ecologico il più basso possibile, dedicare del tempo all’introspezione in modo da riuscire ad accorgerci quando siamo troppo dur* con noi stess*, esercitare il più possibile il nostro potere di consumator* rifiutandoci di dare soldi ad aziende che basano il proprio operato sullo sfruttamento.

Questi sono tutti piccoli cambiamenti che, essendo quotidiani, richiedono un’attenzione costante e sono quindi più impegnativi che fare volontariato un’ora a settimana, attività sicuramente utile ma che non penso debba essere presa come scusa per vivere il resto del tempo lavandosene le mani.

E davvero, non penso importi molto se vogliamo diventare i prossimi Greta Thumberg o se semplicemente stiamo cercando il modo di vivere la nostra vita senza troppa ansia, sicuramente però slegarci dal maggior numero di aspettative e canoni imposti dalla società non può che essere un passo in avanti verso la nostra serenità e quindi verso una maggiore capacità di concentrarci, quotidianamente, sui nostri obiettivi. 

Inoltre, per riassumere il motivo per cui, per apportare dei cambiamenti nella società, vale la pena partire proprio dal nostro modo di pensare, penso non ci siano parole migliori di quelle di Willis Harman: “Nella storia, i mutamenti fondamentali nelle società non emergono dai dettami dei governi nè dal risultato delle battaglie, ma dal fatto che una gran quantità di persone cambiano la loro maniera di vedere le cose, a volte a poco a poco”.

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