di Silvia Gualtieri
Ho riflettuto a lungo sul termine “maternità” e alla fine ho deciso che in questo articolo mi interessava distinguere due cose: l’esperienza della maternità e la possibilità di maternità.
L’esperienza della maternità
Il termine “maternità” è complesso e delicato da utilizzare, in parte perché riguarda da vicino gli elementi più delicati della nostra società, ovvero bambine, bambini e bambin. In generale, non intendo “maternità” in senso strettamente biologico: se pensiamo alla maternità come un tipo di comportamento, è chiaro che non è necessario essere biologicamente donna e fertile per avere un “atteggiamento materno”. Intesa in senso ampio, a me è molto cara soprattutto la maternità artistica. Sicuramente più bistrattata rispetto alla paternità artistica (come tutto quello che riguarda le donne nel campo dell’arte… no, correggo, le donne in generale), l’esperienza della maternità artistica ha molti possibili punti di contatto con la maternità biologica: tempi di gestazione eterni, sbalzi d’umore, momenti di nausea, carico di lavoro centuplicato, grande dolore, grande gioia ed eccitazione e molte moltissime notti insonni. Inoltre, anche la maternità artistica (sotto forma di arte) è tanto venerata sul piano teorico quanto abbandonata a se stessa sul piano pratico. Le manifestazioni dello scorso 17 aprile organizzate da Bauli in piazza, l’occupazione del Globe Theatre di Roma, le rivendicazioni di associazioni come Amleta raccontano tutte di un settore che ha bisogno di riforme urgenti e strutturali, sia sul piano economico che culturale.
Ma se mi sento tutto sommato qualificata per ironizzare sulla maternità artistica, mi sento molto meno qualificata per parlare seriamente dell’esperienza della maternità biologica. Negli anni ho maturato la convinzione che le uniche persone realmente qualificate per ragionare su una data esperienza siano le persone che quell’esperienza l’hanno vissuta, in questo caso le madri in senso stretto (biologiche, adottive, vocazionali…), ossia quelle persone che hanno partorito e/o allevato un baby essere umano. Troppe delle politiche che riguardano il corpo delle donne, madri e non, sono decise o influenzate da persone che l’esperienza di una gravidanza o di un parto non la vivono per ragioni biologiche o per deontologia professionale dell’impresa o del credo di cui fanno parte. Questo è sbagliato, punto e fine, soprattutto quando chi decide non si perita di chiedere il parere delle dirette interessate e di rispettare la possibilità di scegliere di ciascuna. Quindi, passo di nuovo a qualcosa di cui sento di poter parlare e rivolgo un invito a chi legge: se tra di voi c’è qualche madre, fatevi avanti e raccontateci com’è!
La possibilità di maternità
La seconda cosa, e il vero sughetto dell’articolo, è la possibilità di maternità. Come donna e come essere umano, un giorno potrebbe anche saltarmi in testa di mettere al mondo della prole. E qui mi chiedo: avrò realmente la possibilità di farlo e soprattutto, la possibilità di mantenere la mia prole in maniera decorosa? Perché parafrasando il classico titolo del film, l’Italia non è un paese per giovani, figuriamoci un paese per bambini. Al 1° gennaio 2020, l’età media della popolazione italiana era di 45,7 anni (in continuo aumento), il tasso di natalità allo 0,7% (in continuo calo) e c’erano circa cinque anziani per ogni bambino. L’età media per mettere al mondo un bambino nel 2019 era di 32 anni (anche questa in continuo aumento) e la media di figli per donna di 1.29 (anche questa in continuo calo). In buona sostanza, l’Italia è un paese vecchio, con una popolazione che diminuisce.
A leggere questi dati in carrellata, la prima cosa che mi viene in mente è: dovrei pure sentirmi in colpa? Nei dati e nelle statistiche, si parla sempre di “figli per donna”, di “età della madre al parto” e di “numero ideale di figli per donna”, necessari per mantenere la popolazione stabile. “Le donne non fanno più figli” credo sia in assoluto la frase che più mi ha dato l’orticaria mentre facevo ricerche. I dati sono senz’altro oggettivi, ma sbilanciati. A voler essere davvero oggettivi, bisognerebbe parlare anche di “figli pro capite” e dare anche dati sull’età dei genitori a prescindere dal sesso. Se si scrive su Google “perché non si fanno più figli” si entra in una spirale di testi colpevolizzanti. È ridicolo continuare a parlare di questo argomento in un modo che rende facile addossare “la colpa” alle “donne”, quando poi le “donne” sono le più vulnerabili quando si tratta di diritti. Gli stereotipi e i pregiudizi che colpiscono le donne quando si parla di maternità non sono più una novità (o fai figli o lavori, non puoi guadagnare come un uomo, se non sei madre non sei realizzata come donna/ se non lavori non sei realizzata come individuo…), ma – soprattutto in Italia – gli stereotipi sono anche profezie che si autoavverano. O fai figli o lavori per molte donne non è uno stereotipo. È la realtà quotidiana. Ho spesso l’impressione che tante delle campagne “a difesa della famiglia” siano in realtà motivate dalla necessità di spostare l’attenzione dai problemi economici di chi una famiglia cerca di mantenerla, indipendentemente dal suo genere e stato civile. L’Italia è agli ultimi posti (venticinquesima!) in Europa per i sostegni a chi ha figl* carico: nel 2017 l’investimento era pari all’1,1% del Pil, a fronte di una media Ue del 2,2%. Venticinquesima su 27… con tutta la retorica attorno alle famiglie che ci è stata promulgata in questi anni, mi sarei aspettata un dato diverso. A luglio, comunque, dovrebbe entrare in vigore l’assegno unico per le famiglie, un contributo unico e fisso destinato a chi ha figl* dal settimo mese di gravidanza ai 21 anni, un po’ sulla linea del Child Allowance svedese. L’assegno unico dovrebbe portare dei vantaggi per molte persone, ma dei 21 miliardi stanziati, in realtà 15 derivano dalla cancellazione di precedenti sussidi, incorporati nell’assegno unico. Questi dati si inseriscono poi in un quadro più generale in cui la disoccupazione femminile è al 52% e quella giovanile al 30% e in cui mancano i servizi e la mentalità per favorire la compatibilità tra lavoro e genitorialità (asili nido pubblici, asili nido aziendali, lavoro flessibile). Alla fine, si ritorna sempre alla prima impressione di quelle benedette statistiche: la responsabilità dell* figl* ricade sempre sulle madri e mai sulle politiche statali. Per garantire la possibilità di maternità e più in generale la possibilità di genitorialità non si può prescindere da misure di sostegno economico e soprattutto da un cambio di cultura.