Intervista a una mamma femminista, di Matilde Cesareo.
Questa intervista è stata trascritta tutelando la privacy dell’intervistata e delle persone da lei menzionate. A. è una mamma di due bambini, uno di tre e uno di un anno, è femminista e militante su molte questioni politiche, attenta alla sostenibilità e formatrice.
M: Secondo te qual è il motivo per cui si sceglie di essere madri? (un bisogno ancestrale di continuità genetica, il bisogno di rispecchiare un’aspettativa esterna, il bisogno di prendersi cura di qualcuno…)
A: Secondo me è un insieme di cose. Io non ho mai messo in discussione la voglia di avere figli. Ho sempre saputo che avrei voluto averne, un po’ perché mi sembrava quasi parte naturale della vita, un po’ perché mi è sempre piaciuto l’ambito educativo, stare con bambini, e un po’ perché sono sempre cresciuta in un ambiente dove c’erano molte generazioni diverse insieme ed era naturale che ci fossero bambini in giro anche quando io sono cresciuta. Poi quando ho conosciuto D. (il compagno, ndr.) lui sembrava non volere vedere i bambini neanche da lontano. Non abbiamo ovviamente parlato di figli subito, però il fatto che lui non avesse mai avuto a che fare con bambini per me era strano. Era come se qualcuno dicesse “non mi piacciono i cinquatenni”, cioè sono persone, ci saranno bambini che ti piacciono, bambini che non ti piacciono, ma come si fa a dire che c’è quella fascia di età che non ti piace? Non lo so. Quindi io questa cosa l’ho sempre un po’ vissuta così.
Mi sembra più egoista scegliere di avere figli che scegliere di non averne.
Io credo che sia una scelta molto egoista. Nel senso che soprattutto il primo figlio lo fai perché tu hai voglia di farlo, non fai del bene a nessuno che a te stesso avendo un figlio. E poi non è detto neanche che tu ti faccia così tanto del bene, nel senso che poi non è una scelta senza conseguenze. Mi sembra più egoista scegliere di avere figli che scegliere di non averli. Tu stai scegliendo anche di condizionare la vita di un altro essere umano alle tue scelte future e immediate e stai scegliendo anche di crescerlo in base a quello che tu pensi che sia giusto. quindi a priori nell’idea di mettere al mondo un figlio (che è comunque diverso che adottarlo o simili) mi sembra una scelta totalmente autocentrata. Con il secondo figlio invece secondo me è un po’ diverso: quando noi ci siamo posti la possibilità di avere un altro figlio, ci sembrava un regalo anche per il fratellino. Per me il legame con mio fratello è così importante che non posso immaginare una vita senza fratelli. Un po’ in questa logica ci sembrava che per il bimbo potesse essere bello (ovviamente noi non abbiamo certezze su come sarà il loro rapporto, ma credo che il rapporto tra fratelli e sorelle sia molto condizionato anche da che cosa si vive in casa e da cosa si respira nell’ambiente in cui si cresce). Ci sembrava molto importante anche l’equilibrio per lui di non avere tutte le attenzioni, preoccupazioni, pretese, aspettative tutte su di lui. Sarebbe meglio che non fosse così, però culturalmente quando cresci una persona hai molte aspettative ed è importante ricordarselo e decostruirlo ogni giorno. Secondo me è un mattone che metti addosso a quella persona – però è anche un po’ inevitabile, quindi anche se sei consapevole sono lì un po’ nel retro del cervello e con due figli si distribuiscono un po’ meglio.
M: Ma invece per esempio i miei genitori vivono la genitorialità come l’opposto di essere egoisti: egoista è non fare figli. Se decidi di essere genitore rinunci a tante cose per la vita di un’altra persona.
A: Questo però arriva dopo la scelta egoista di fare un figlio. Nel momento in cui tu poi hai un essere umano minuscolo con te, la tua vita deve anche adattarsi ai bisogni di quella persona, non puoi far finta di niente. Però fare rinunce non è necessariamente altruista, vuol dire considerare l’altro che è fondamentale nei rapporti umani. Quindi nella logica che nessuno di noi è completamente autosufficiente e che viviamo in sinergia ovviamente i bambini e le bambine sono più bisognosi degli adulti quindi per un certo periodo la sinergia si sbilancia e tu devi essere lì disposto e pronto a soddisfare i bisogni di quella persona. però io questo non lo trovo un atto di altruismo, lo trovo una conseguenza logica del mettere un figlio al mondo. Altruista sarebbe tipo l’affido, non c’è quel senso di appartenenza. Infatti nel fare figli spesso c’è anche la questione del figlio che mi appartiene, è mio no? non c’è niente di altruistico in questo. Anche quello secondo me sarebbe da decostruire.
M: Infatti c’è una concezione un po’ socialista diciamo del mutualismo anche rispetto al fare i figli, nel senso che il mio utero non è mio mio ma è “messo a disposizione” e poi i figli sono cresciuti in comunità. Quindi il figlio non è mio ma cresce insieme a me.
A: Questo sarebbe bellissimo. Poi io credo che, sicuramente farò un sacco di errori nel crescere i miei figli, ma io mi sento una persona capace di trasmettere valori importanti ai miei figli. Ritengo che quello che possiamo offrire ai nostri figli sia molto positivo e che quindi avrà un’incidenza positiva nel contesto in cui vivranno da grandi.
M: Ma questo non lo pensano un po’ tutti i genitori secondo te?
A: Non lo so. Credo che molti siano consapevoli di poter dare tutto l’amore di cui sono capaci, ma dall’altra parte c’è la volontà di rendere una persona libera, autonoma, felice, e capace di generare tutto questo nel proprio contesto. Non so quante persone si pongano la questione valoriale. E poi chiaramente non sempre si sceglie liberamente di fare figli.
Oltretutto io non so molto della situazione del calo demografico e su quanto sia positivo o no fare i figli in generale. Non so quanto sia determinante. Ma mi dà un po’ rabbia e fastidio quando le persone dicono che non è sostenibile fare figli da un punto di vista ambientale, quando magari quelle persone hanno una vita molto meno sostenibile della mia.
M: Questo è sicuramente vero, ma dall’altra parte è anche vero che il mondo è davvero sovrappopolato e noi che siamo nella posizione di scegliere se avere o non avere figli biologici forse effettivamente dovremmo farci questa domanda. Sarebbe più sostenibile se non dico smettessimo ma riducessimo il fare dei figli sapendo che comunque in altre parti del mondo questa è una necessità.
A: In questo senso è ancora più egoista come scelta. Non lo fai per il bene del mondo, lo fai perché vuoi. Secondo me dire che si fanno figli per il bene del mondo è un po’ raccontarsela. Però io non mi sento in colpa per averlo fatto. Faccio tante altre scelte per il mio bene personale che non sono giustificate dal fare bene al mondo. Faccio anche tante altre scelte per vivere una vita il più sostenibile possibile.
Sicuramente ci sono delle questioni che sono contestuali e di cui magari non siamo pienamente consapevoli, tipo la pressione sociale. Però questa pressione io non l’ho mai vissuta male, avendo voglia di mio di avere figli biologici in ogni caso.
M: Ma quando tu hai elaborato consapevolmente il fatto che volevi essere madre, è stata una cosa che hai prima decostruito e poi riaffermato, o è stata una cosa naturale per cui non ti sei nemmeno fatta la domanda che magari non lo volevi?
A: La domanda me la sono fatta quando si è avvicinato il momento effettivo di farlo. Infatti, quando è diventata una cosa concreta e io e D. siamo andati a vivere insieme, avevo molte paure all’idea di diventare madre. Il fatto di avere una situazione lavorativa precaria o inesistente, di non avere le idee chiare su cosa avrei voluto fare nella vita, mi metteva molto in difficoltà davanti alla scelta di diventare madre. Quello che ho pensato è “se io ho un figlio prima di sapere che tipo di lavoro voglio fare o come voglio spendere la mia vita professionale mi taglio fuori”. Ho vissuto un po’ la situazione di mia madre: lei ha avuto figli molto giovane e ha rinunciato a una scelta professionale, perché poi di fatto, quando noi siamo cresciuti, lei ha ricominciato a lavorare, ma sempre facendo lavoretti che non le piacevano, molto pesanti fisicamente… e lì si sono svegliati un po’ di fantasmi della mia situazione famigliare. Ho capito che non volevo essere madre nelle condizioni in cui lo è stata mia madre e anche la sua (mia nonna). Poi quando più o meno ho capito cosa avrei voluto fare nella vita mi sono sentita più serena e ho pensato che potevo e volevo diventare madre. Ho chiesto a D. di fare una lista delle nostre paure e dei nostri sogni riguardo alla genitorialità. La mia erano quattro pagine, la sua quattro righe [ride]. Molte delle paure si sono confermate.
M: E i sogni?
A: I sogni anche. Tendo a pensare di avere più potere di incidere sui sogni e meno su quello che provoca le paure in questo caso. Perché le paure sono legate a oppressioni e discriminazioni strutturali, e i sogni più a una volontà e una capacità di mettersi in discussione e alla voglia di crescere. Quindi le paure erano, per esempio, di sentire su di me tutto il peso della cura dei figli, di non riuscire a lavorare più… All’inizio è stato molto forte l’impatto anche sul rapporto di coppia, ci ha completamente scombussolati. Perché la gente dice come ti cambia la vita, ma finché non ti capita non capisci quanto è vero. Poi io non ho mai avuto un forte bisogno di avere una mia famiglia, ho un buon rapporto con la mia famiglia di origine e non ho mai sentito il bisogno di avere famiglia mia come obiettivo nella vita. Non ho mai pensato che esaurisse tutto quello di cui ho bisogno per stare bene nel mondo. Invece per D. era un po’ diverso, era un obiettivo personale questa cosa: la sua famiglia di origine è stata così faticosa e lui l’ha vissuta in modo così traumatico da parte dei suoi genitori che per lui riuscire in questa impresa era come una sfida personale. Questi due bisogni e dimensioni diverse con cui abbiamo a che fare ci hanno un po’ messo in difficoltà perché prima di avere figli non era così evidente. Nel momento in cui è nato il primo bimbo all’improvviso io non avevo più libertà, ma continuavo ad aver bisogno del nutrimento che mi danno altre cose; mi sentivo un po’ annaspare nella dimensione del nucleo famigliare.
M: Come ha influito sul tuo sentirti una donna il fatto di essere madre? (Ti senti più donna perché sei madre? O ti senti meno donna – in quanto meno desiderabile sessualmente – perché sei madre? Le persone ti guardano come una “vera donna” perché sei madre?)
A: Per me la definizione di donna non ha niente a che fare con l’essere desiderabile: prima di essere incinta per me non aveva un peso specifico nella mia identità la questione di essere donna dal punto di vista biologico. E ho sempre saputo che non ci sono tutte queste differenze biologiche tra uomini e donne e che c’è molto di culturale e di come siamo cresciuti. Per questo non ho mai rivendicato il mio essere donna. Finché non sono rimasta incinta e ho trovato una persona che per me è stata molto importante: lei un po’ mi ha fatto vedere la dimensione legata all’aspetto biologico e riproduttivo, energetico… più che altro quello che ho vissuto in quel periodo è stato collegarmi alla parte più animale di creatura con utero, in grado di portare avanti una gravidanza e partorire. Questo è stato molto impattante, una parte di me che ho trovato molto istintiva e lontana da tutto quello che era invece una parte culturale e ideologica scelta. Ho vissuto dal punto di vista biologico e animale che ci sono delle differenze tra i corpi, che si sentono nell’esperienza fisica. La mia prima gravidanza è stata legata a quella dimensione animale e mi è piaciuto un sacco, mi sono sentita più vicina alla natura e lontana dai costrutti umani. Sicuramente è stata un’esperienza molto bella e positiva.,
Poi c’è la parte che il corpo cambia e quindi diventi meno desiderabile che è molto forte, ma non c’entra tanto con il sentirsi donna o meno. Per me c’entra piuttosto con la propria autostima in generale e con quanto per me è cambiata la vita sessuale dopo che è nato il primo bimbo. Bisogna lavorare per non legare la propria identità al desiderio sessuale. Per me il desiderio sessuale è sempre stato molto importante, ma da cinque anni a questa parte non mi interessa così tanto e bisogna saper accettare anche questo. Può essere un po’ un tabù anche di coppia, non solo sociale. Se non ho più voglia adesso che si fa? O magari ho voglia di leggermi un libro quella sera che ho tempo. Bisogna anche saper accettare che la sessualità non è più la stessa priorità a un certo punto.
M: Io vedo la sessualità come una delle cose animalesche che ci sono rimaste nella società di adesso, non è condizionata da tanti aspetti culturali e sociali, l’istinto e il desiderio semplicemente esistono o no. Da questo punto di vista la sessualità è un po’ lo specchio della riproduttività, quindi capisco questa dimensione.
A: In questa fase della mia vita vivo la sessualità come una parte fondamentale del mio rapporto di coppia. Ma è anche interessante vivere il proprio corpo come spazio di cura altrui, no, l’allattamento, il portare il bimbo col marsupio, il contatto con la pelle… è interessante. E credo che il parto in sé sia un’esperienza fantastica, almeno lo è stata per me.
In quel periodo faticoso io mi sono chiesta se la mia vita era diventata più felice, se stavo meglio di prima. Questa domanda quasi mi vergognavo a farla. Come facevo a chiedermi una cosa così?
Il periodo dopo il mio primo parto è stato un periodo di estrema solitudine perché non avevo molte amiche mamme. Cambia completamente il ritmo di vita, quindi gli amici con cui sono sempre stata avevano orari diversi… all’inzio io mi portavo il bimbo ovunque, lo allattavo a teatro, dappertutto. E comunque sentivo sempre di non essere al passo. Quello è stato un periodo difficile e di solitudine, stare per tante ore da sola a casa col bimbo. Poi quando è nato il secondo bimbo era diverso, avevamo già rinunciato a tante delle precedenti priorità, avevamo già un giro di persone con figli e quindi con ritmi e priorità simili – poi c’era il covid quindi eravamo tutti più o meno nella stessa barca [sorride]. In quel periodo faticoso io mi sono chiesta se la mia vita era diventata più felice, se stavo meglio di prima. Questa domanda quasi mi vergognavo a farla. Come facevo a chiedermi una cosa così? Questo, legato al fatto di sentire tutto il peso della cura sulle mie spalle e di aver rinunciato a tante cose, mi ha fatto aggrappare al femminismo. Ho capito che la dimensione politica e sociale di essere donna mi permetteva di non sentirmi da sola in questo, che non era una mia condizione personale, ma strutturale,
M: Infatti mi hai parlato spesso del fatto che la tua consapevolezza femminista è cresciuta quando sei diventata madre, e la mia domanda è: perché?
A: Da donna etero, cis, di classe media, con molte possibilità nella vita e poche situazioni di violenza diretta, sono una persona molto privilegiata. Non ho mai vissuto una situazione di discriminazione profonda di cui fossi consapevole nella mia vita. Mi sentivo molto empatica con le discriminazioni altrui ma non avevo visto nella mia condizione personale un tipo di lotta. La condizione di madre è un’altra cosa che mi ha insegnato era che ero meno privilegiata di quanto credessi.
M: è un po’ come se la discriminazione delle donne nella società avvenisse proprio perché hanno la possibilità di diventare madri in alcuni casi.
A: Sì, io quello che ho sentito in quel caso era che la mia condizione di donna-madre mi rendeva più vulnerabile che quella di solo donna.
M: Questo è interessante perché dalle donne ci si aspetta che diventino madri. ma quando diventano madri sono ancora più discriminate in certi aspetti.
A: Di fatto perdi la tua autonomia e la tua libertà. Credo sia molto diverso in che contesto diventi madre. Mi piacerebbe esplorare cosa vuol dire maternità per le donne lesbiche che crescono un figlio, per le donne che scelgono di essere madri single… credo che sarebbe diverso. Credo che la dinamica della coppia etero abbia ancora delle sovrastrutture molto pressanti e oppressive, per quanto D. sia una persona che ho scelto, che ammiro, che cerca di decostruire tante cose, ci siamo scontrati tante volte con il suo essere patriarcale inconsapevole, e ci scontreremo ancora.