di Francesca Martelli

Sono una cosplayer, forse. O meglio, sono una crossdresser. Wikipedia, l’enciclopedia comunitaria, per qualche ragione profondamente odiata da tuttə lə professorə nel globo terracqueo, dice così: “Cross-dressing è un termine inglese che letteralmente significa “il vestire in modo opposto” e identifica l’atto o l’abitudine di indossare, pubblicamente e/o in privato, abitualmente o saltuariamente, per svariati motivi inclusi quelli puramente ludici, abiti che in un determinato ambito socio-culturale sono comunemente associati al ruolo di genere opposto al proprio”. Partendo dal presupposto che non ho idea di quale sia la mia identità di genere, ma non ho troppa voglia di scoperchiare questo vaso di Pandora, per convenienza diremo che sono una ragazza. Comunque, mi vesto da personaggi immaginari, maschi. Perché non una cosplayer? Wiki said: “Cosplay è una parola giapponese formata dalla fusione delle parole inglesi costume e play che indica la pratica di indossare un costume che rappresenti un personaggio riconoscibile in un determinato ambito e interpretarne il modo di agire”. Beh, non ho nessuna voglia di interpretare particolarmente nessunə. Mi vesto da tizi strani e cerco un’estetica che mi aggrada. E la maggior parte di questa discutibile attività avviene in privato, il che è piuttosto bizzarro, visto che la maggioranza di queste persone fittizie non ha mai lasciato la mia abitazione, sia fisicamente che telematicamente. Ho diverse fotografie, per carità, ma scattate principalmente per non buttare nel cesso ore di: trucco, parrucco, applicazione di quelle dannate lenti a contatto colorate, la creazione del costume. A proposito, mi hanno fatto recentemente notare che tra i miei -ok, faccio fatica a scriverlo, scusate, ora lo scrivo- cosplay, ci sono solo personcine mascule (con il grande disappunto del mio ragazzo cishet). Ecco appunto, quando mi capita di mandargli una foto conciata come lo zio Peppe al matrimonio del cuggino di sesto grado, e tendenzialmente la risposta è: “amo sei figa, ma una femmina ogni tanto?”, il mio cervello va in shutdown, linea piatta, ciaone.

Il fatto è che non mi ci sento a mio agio in abiti socialmente considerati femminili. Mi sento un fenomeno da baraccone, e mi mette ancora più in crisi con la questione del giendder. Un’altra campana mi ha fatto presente che ho sempre avuto molti amici maschi e meno amiche femmine, quindi sarebbe normale che anche in mondi fantastici io tenda verso il “maschile”, che preferisca personaggi maschili e che di conseguenza io voglia entrare nei loro panni. Oltre al fatto che quelli femminili sono molto spesso eccessivamente sessualizzati – che storia bizzarra, meno male che nel mondo reale questo non succede! – e che nella mia vita seguo uno stile di moda piuttosto neutro. Tornando ai nostri cosplay, ho sempre fatto fatica a mostrarli in pubblico. Questo per diversi motivi, il primo in linea di importanza è che sono una cazzo di perfezionista e dopo cinque secondi dal compimento della mia opera, questa, secondo un’infallibile legge dell’universo, inizierà a farmi cagare. E quindi, mi vergogno. Mi vergogno perché non ho raggiunto la perfezione. Mi vergogno perché non sono la migliore parrucchiera, make up artist, stilista e fotografa dell’universo. Tipo che questa foto che vedete qui se la guardo troppo poi mi viene da piangere e inizio a chiedermi perché faccio così schifo nella vita… Esatto, a scriverlo – e leggerlo – è ridicolo. Nessuno si aspetta da me che sia al top di tutte queste categorie, tranne la sottoscritta. E quindi fanculo, a me per prima. Eccomi, non sono perfetta, il costume non è perfetto, il trucco è banale, la parrucca è ancora terribile dopo ore di acconciatura. Mi riapproprio della mia imperfezione e continuerò a vestirmi da tizi giapponesi dei fumetti, in privato, e qualche volta anche in pubblico. Perché io mi diverto così. E, almeno per me, è quello che conta.

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