di Mariaeugenia Tortora
“ Avevo pensieri malinconici…
una stranezza nella mia testa,
la sensazione di essere estraneo a quel tempo,
a quel luogo.”
William Wordsworth, Il preludio
Virginia Woolf scrive: “ […] È al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione e della nostra epoca.”
Fëdor Dostoevskij sostiene che: “ La Bellezza salverà il mondo.”
Alla luce degli avvenimenti e delle decisioni degli ultimi giorni possiamo dire che il buon vecchio Fëdor purtroppo si sbagliava: la Bellezza non salverà il mondo.
Della Bellezza ce ne siamo dimenticati, ce ne siamo disinteressati proprio, per usare un eufemismo.
Con il nuovo DPCM introdotto dal Governo nella giornata del 24 ottobre, a causa del peggioramento dei numeri del contagio da Covid19, sale da concerto, cinema e teatri (anche all’aperto) sono stati chiusi. In realtà possiamo dire che non hanno mai veramente riaperto, ma questa è un’altra storia.
Rimangono tuttavia accessibili i luoghi di culto ad esempio le chiese, in cui sono ancora consentite Messe e funzioni religiose.
Nonostante i dati attestano che: su 2782 spettacoli (nel periodo che va da giugno ad ottobre) su 347262 spettatori è avvenuto UN SOLO CONTAGIO.
Ci sarebbe da chiedersi il perchè di questa scelta. Una risposta in questo senso ancora non è stata data.
Inoltre, fino ad oggi, il Governo rifiuta di incontrare i rappresentanti di queste categorie: artisti, attori e registi, cantanti, musicisti.
Ma anche di tutti coloro che lavorano dietro le quinte di queste realtà: scenografi, costumisti, fonici ecc. I nostri politici rifiutano di aprire un tavolo di discussione, sostenendo che ci siano problemi più importanti.
In queste righe, vorrei proporre una riflessione sul perché di queste scelte, dal mio punto di vista di cittadina che ovviamente vale uno, nulla di più nulla di meno.
Prima di entrare nel vivo delle mie riflessioni, vorrei fare una piccola postilla su chi sono “i Classici” che attanagliano la cultura e ce la fanno sembrare così tanto impolverata, lontana e inutile.
I Classici non sono i tomi, i libroni enormi, a cui siamo abituati a pensare. Non sono L’iliade e l’Odissea, non sono Dostoevskij. O meglio sì, ma non solo. In origine, i Classici erano “i soldati di lungo corso” quelli sopravvissuti a mille battaglie, che portavano addosso le ferite del tempo e della guerra. Erano quelli a cui le nuove reclute dell’esercito chiedevano consiglio e da cui si sentivano protetti.
Buffo no? Mettiamo da parte e consideriamo inutili proprio quelli da cui, invece, potremmo rifugiarci e chiedere aiuto.
Postilla conclusa.
Innanzitutto, che cosa intendiamo quando parliamo di cultura?
Da amante dei Classici appunto, mi piace partire da lontano: la parola cultura deriva dal verbo latino: “colĕre” che significa: coltivare, prendersi cura della terra, è qualcosa di molto pratico, di molto concreto quindi. Ma lo stesso verbo si usa anche per indicare il prendersi cura di ciò che è sacro. Da “colĕre” deriva la parola “cultus” il culto: il mettersi in contemplazione di qualcosa di più grande, di più alto. Per gli Antichi quindi, quando si parla di cultura, ci devono essere questi due elementi: la fatica del contadino che lavora il campo, che in quello spazio vede la possibilità per una crescita personale e del campo che sta coltivando, e una dimensione sacra: un’opera di culto. Se mancano questi due elementi, per loro non è vera cultura.
Ora spostiamoci per un attimo nel mondo greco: il termine teatro deriva dal verbo greco “θεάομαι” che significa: guardare, contemplare, essere spettatore appunto.
Nell’Atene del V secolo a.C. il teatro era il centro della vita pubblica, sociale e politica della città. Era un momento sacro in cui tutta la cittadinanza si riuniva, per riflettere sui temi più caldi del momento e purificarsi attraverso la catarsi e l’immedesimazione nelle vicende raccontate: nelle tragedie prima e nella commedia poi. Assistere agli spettacoli teatrali faceva parte delle celebrazioni in onore di Dioniso (o Bacco) dio del vino, della festa, dell’ebbrezza. Le Grandi Dionisie si svolgevano nel periodo tra marzo e aprile e duravano cinque giorni. Tutti andavano a teatro, nessuno escluso: da Pericle, all’ultimo dei contadini di campagna. A chi non poteva permettersi il costo del biglietto, l’ingresso a teatro veniva garantito dall’Arconte Eponimo, colui che si occupava ed era responsabile delle celebrazioni e quindi degli spettacoli. Tutte le spese che derivano da queste attività: regia, attori, scenografia ecc. erano a carico dello stato e della polis.
C’è un filo rosso che collega Roma e Atene: la dimensione sacra e rituale della cultura. I Romani la esprimevano attraverso la lingua come abbiamo visto, i Greci, invece, attraverso l’andare a teatro. La cultura non aveva una dimensione elitaria, ma era qualcosa di accessibile a tutti, senza distinzioni. Attraverso il teatro, la musica, e l’arte l’individuo percepiva il suo essere altro, rispetto alla mera corporeità, di essere qualcosa di più alto, destinato a cose grandi. Percepiva la presenza della Bellezza nel mondo, come scrive Aristotele nella sua Poetica, e come dirà poi Dante a distanza di secoli:
“ Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.”
Inferno, Canto XXVI
È la stessa Bellezza di cui parla Dostoevskij, e che secondo lui salverà il mondo.
Oggi invece, se parliamo di cultura, pensiamo subito a qualcosa che coinvolge e interessa pochissime persone. Azzardo a dire che forse è per questo che teatri, cinema e sale da concerto, sono stati chiusi. Perché li consideriamo un vezzo, uno svago, un hobby: qualcosa di trascurabile, di sacrificabile. Pensiamo che la cultura e la Bellezza non ci riguardino più. Pensiamo che basti curare la religiosità in senso stretto, per restare umani (lo dimostra il fatto che le chiese e i luoghi di culto sono rimasti aperti e accessibili). Ma non è così: a prescindere dall’essere religioso o credente, l’uomo ha bisogno di “prendersi cura” del suo essere uomo, della sua Spiritualità, nel senso più ampio del termine, del suo essere cittadino e del far parte di una comunità. Forse forse, dovremmo un po’ recuperare quella dimensione sacra e cultuale di cui parlavamo prima.
Siamo essere umani, abbiamo bisogno di coltivare, riconoscere e vivere la Bellezza.
Abbiamo bisogno di Shakespeare e Sofocle. Abbiamo bisogno di Beethoven e di Michelangelo. Soprattutto nei momenti più bui. Per ricordarci che siamo anche altro, che siamo destinati a cose grandi.
Teatro, cinema e musica servono a questo: ci mostrano il Bello e ci permettono di restare umani. Di restare vivi e non soltanto in vita.
Fonti e risorse
“Associazione Generale Italiana dello Spettacolo”
Aristotele, Poetica, Bompiani Editore, 2017.
Alessandro d’Avenia, Il Potere della parola tra poesia e filosofia,
filosofia Romanae Disputationes, Bologna 13 febbraio 2020.
Vernant e Vidal – Naquet, Mito e Tragedia nell’antica Grecia, la tragedia come fenomeno sociale estetico e psicologico, Einaudi editore 1976.